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giovedì 18 marzo 2010

Ted Hughes: il poeta laureato

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Ted Hughes è nato nel 1930 nello Yorkshire (terreno fertile per la poesia inglese di questo secolo: vi sono nati poeti come Harrison ed Armitage). L’infanzia di Hughes passò in questa regione piuttosto brulla e desolata. Si iscrisse all’Università di Cambridge (insoddisfatto dalle materie letterarie si dedicò allo studio dell’antropologia e all’archeologia). A Cambridge, come detto in precedenza, conobbe Sylvia Plath, la poetessa americana che divenne sua moglie, gli diede due figli e morì suicida nel 1963 a soli trentuno anni. Con lei visse qualche tempo negli Stati Uniti prima di tornare definitivamente in Inghilterra nel 1959. Nel frattempo era uscita la prima raccolta di versi di Hughes The Hawk in the Rain (1957). La sua attività di promotore culturale fu intensa. Partecipò, come detto nell’introduzione, alle riunioni del Group e comunque è sempre stato costantemente al centro, e in prima persona, del dibattito culturale.

Nel 1967, ad esempio, organizza a Londra la Poetry International 1967 alla quale sono invitati nove poeti provenienti da nove nazioni. Nel frattempo erano uscite, in rapida successione – Hughes è poeta piuttosto prolifico – Lupercal, Wodwo e Crow (tra il 1960 e il 1970) che contengono testi fra i più interessanti di tutta la sua produzione. A queste raccolte di versi sono seguite Gaudete (1977), Remains of Elmet e Moortown (1979). Nel 1984 Ted Hughes è stato nominato Poeta Laureato, la più alta carica onorifica letteraria inglese.

La poesia di Hughes sin dagli esordi sembra segnata da una profonda frattura tra due dimensioni dell’esistenza: siano essi Cielo e Terra, Soggetto e Oggetto, Interno ed Esterno. E dalla conseguente necessità di recuperare la frattura mediante un cambio di prospettiva: un movimento che inevitabilmente porta verso il profondo, verso una necessaria ed ossessiva ricerca di dimensioni “altre” dell’esistente. L’atteggiamento nei confronti del reale è profondamente “antagonistico”, teso sempre a smascherare l’illusorietà della maya (il termine orientale con il quale gli orientali definiscono l’apparente). Il primo impatto, una volta smascherato il velo di razionalità che segna l’umana visione delle cose, sembra essere quello di una violenza meccanica, istintiva, animale. Una specie di cieca necessità primordiale incomprensibile ma allo stesso tempo affascinante. L’immagine del falco in Hawk Roosting (Falco Appollaiato) è in questo senso emblematica:

I sit in the top of the wood, my eyes closed.
Inaction, no falsifying dream

Between my hooked head and hooked feet:
Or in sleep rehearse pefect kills and eat.

***


Siedo sulla sommità del bosco, a occhi chiusi.
Inerzia, nessun mistificante sogno


Tra il mio capo adunco e le mie zampe adunche:
o nel sonno riprovo cacce perfette e mangio.

Dove l’inquietudine è sottesa a quell’aggettivo “adunco” utilizzato per le molle pronte a scattare; “capo” e “zampe” pronti ad inseguire una nuova preda. Il punto di osservazione privilegiato di queste prime liriche di Hughes è il mondo animale. Molto si è scritto sul recupero che Hughes porta avanti di una tradizione tutta inglese per l’osservazione e la descrizione in poesia del mondo animale. Ma la questione sembra porsi nella poetica del poeta dello Yorkshire in maniera del tutto diversa. Se l’apparenza è apparenza, quello che conta non è dunque tanto l’oggetto osservato quanto la capacità che l’acuta osservazione ci dà per arrivare a qualcosa di altro, più complesso. In poche parole: la descrizione serve ad uno scopo ben preciso. Il primo è già raccontato nel secondo verso di questa lirica: no falsifying dream. Questo è il primo obiettivo dell’osservazione di Hughes: smascherare, tentare di andare oltre ogni sogno mistificante. Impresa nobile, appunto, ma estremamente difficoltosa. Seguiamo ancora Hughes nel finale di questa lirica:


There is no sophistry in my body:
My manners are tearing off heads -

The allotment of death.
For the one path of my flight is direct

Through the bones of the living.
No argument assert my right:

The sun is behind me.
Nothing has changed since I began.

My eye has permitted no change.
I am going to keep things like this.

***
Non c’è sofisma nel mio corpo:
i miei modi sono di dilaniare teste -


la spartizione della morte.
Poiché l’unico sentiero del mio volo è diretto


Attraverso le ossa dei viventi.
Nessuna tesi afferma il mio diritto:


il sole mi è alle spalle.
Nulla è mutato dal mio inizio.


Il mio occhio non ha permesso mutamento alcuno.
Terrò le cose in questo modo.

La direzione della ricerca comincia ad apparire chiara: There is no sophistry in my body:/My manners are tearing off heads – e poco dopo: No arguments assert my right. Ora possiamo prendere queste affermazioni come vere e proprie definizioni di poetica. Siamo sulle tracce di qualcosa che non venga affermato mediante sofisma alcuno, senza alcuno sviluppo argomentativo di tesi o quant’altro. La strada si fa sempre più difficile e rischiosa, la terra sembra cedere sotto i piedi di Hughes. Se nell’immagine della ghiandaia azzurra di Gunn avevamo trovato l’idea di un istintualità che conduce verso una “violenza incerta”, verso un luogo “dove le parole più non servono”, con Hughes siamo nel pieno di quella palude, senza più mediazione alcuna. Un altro percorso critico seguito – a dire il vero sono stati più i detrattori a fare questo – è stato quello di mettere in luce la violenza delle immagini di Hughes; come se alla razionalità dell’individuo medio non fosse possibile contrapporre altro che immagini di insensatezza pericolosa, priva di direzione. Può essere anche questo ma significherebbe davvero raccontare una verità parziale dal punto di vista di Hughes. Come bene scrive Pennati: “La descrizione della violenza è solo l’allegorismo più naturale e più manifesto di un’altra intima umana lotta, più che trasfigurata rispecchiata in animali.” La violenza delle immagini di Hughes non solo è dato inerte e privo di giudizio ma spesso “allegoria” di qualcosa di altro. Un’allegoria non tanto perché l’immagine necessariamente rimanda a qualcosa – ad un contenuto latente, ad esempio, quanto perché l’immagine aderisce su qualcosa modellandone la forma e allo stesso tempo facendosi forma. L’immagine che viene alla mente allora è quella del Thought-Fox (Pensiero-Volpe – altra celebre lirica di Hughes) dove già dal titolo si tenta di realizzare questa specie di “Incarnazione” della parola in quello/quanto descrive.

I imagine this midnight moment’s forest:
Something else is alive

Beside the clock’s loneliness
And this blank page where my fingers move

***

Immagino la foresta di questo momento a mezzanotte:
altro è vivo


oltre la solitudine dell’orologio
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.

Questo inizio sembra presagire un esito descrittivo ma lo scarto arriva ancora una volta sul finale con un’indicazione fondamentale per il lettore che contribuisce a chiarire quanto detto sopra. Dopo l’apparizione della volpe – presagita nell’iniziale Something is alive – ecco la fusione:

… an eye,
A widening deepening greenness,

Brilliantly, concentratedly,
Coming about its own business

Till, with a sudden sharp hot stink of fox
It enters the dark hole of the head.

The window is starless still; the clock ticks.
The page is printed.

***
… un occhio
un verde fondo e dilatato,


brillante e concentrato,
che se ne viene per i fatti suoi


sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe
non penetri la buca nera della testa.


Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio,
la pagina è tracciata

dove nel momento esatto in cui l’occhio penetra “la buca nera della testa” avviene il miracolo della scrittura generata dall’odore, dal movimento, dall’occhio della volpe che si espande sul foglio perché modella e modellata a sua volta dalla scrittura poetica.

Il primo punto è stato dunque fissato: parola e cosa tentano un’ideale fusione. E lo stile del linguaggio di Hughes non può che inseguire il guizzo rapido ed istantaneo del pensiero-volpe. Come scrive ancora Pennati: “Stile che non è, pertanto, stravolgimento dei nessi del lessico o della sua cadenza o del suo coagularsi entro immagini, ma di tutto ciò la tensione totemica svolta a rendere insieme e per entro a quella violenza connaturata l’interna collusione dell’esistere, laggiù nella sua istintualità primordiale.” Dove, facendo critica della critica si potrebbe dire che Pennati, (anche traduttore di Hughes) si è messo a scrivere in simbiosi con l’autore che tenta di raccontarci. La lingua di Hughes, infatti, non esce stravolta dal confronto con l’al di là delle cose. Deborda oltre il limite del verso, non si ritrova nelle cadenze tradizionali della versificazione inglese; deve trovare un appoggio che è spesso più fonetico che metrico. La sua è una scrittura di accenti, di assonanze e di vibrazioni consonantiche. Ci vengono in soccorso ancora una volta le parole di Heaney, illuminanti sia quando parla in termini critici che quando si esprime in termini poetici.

Questa poesia di Heaney da Station Island (1984) è un’immagine perfetta del linguaggio dell’amico Hughes.

Widgeon
It had been badly shot.

While he was plucking it
He found, he says, the voice box -

Like a flute stop
In the broken windpipe -

And blew upon it
Unexpectedly

His own small widgeon cries

***

Fischione
Gli avevano sparato male.


Mentre lo spennava
Trovò, dice, la laringe -


Come una linguetta di flauto
Nella trachea spezzata -


E vi soffiò sopra
Inaspettatamente


I propri piccoli gridi di fischione.

E pare quasi di vederlo Hughes mentre fischiando nella trachea spezzata dell’esistente tenta di estrarne “i propri piccoli gridi di fischione”. La Natura (chissà cosa avrebbe detto Wordsworth) non è più un fine ma un mezzo. Una specie di strumento, un’arpa eolica mossa dal vento che occorre ascoltare per percepire la musica di ciò che accade.

Scrive ancora Heaney: “Il vigore di Hughes ha molto a che fare con le consonanti che prendono la misura delle vocali, come compassi, o che punteggiano il verso come chiodi”. Poco prima nello stesso saggio: “La sensibilità di Hughes è pagana nel senso originario del termine: egli è cacciatore del pagus, un abitante della brughiera, un selvaggio; si muove tra le macchie al di là dell’urbs seguendo l’istinto; non è né urbano né civile. La sua poesia ha tanto l’odore della tana quanto della biblioteca.”

Compito del poeta secondo Hughes sembra essere quello di ritrovare una specie di “intelligenza” primitiva, rubata all’uomo dalla sua esigenza di razionalità. Un’intelligenza primitiva che deve avere un criterio “uditivo” piuttosto che “visuale”.

Hughes è chiaro in questo e sostanzia, da buon antropologo e archeologo, le sue affermazioni “poetiche” con puntuali elaborazioni scientifiche. Eccolo in un’intervista del 1971: “The deeper into language one goes, the less visual/conceptual its imagery, and the more audial/visceral/muscular its system of tensions: This accords with the biological fact that the visual nerves connect with the modern human brain, while the audial nerves connect with the cerebellum, the primal animal brain and nervous system, direct.” [Più si va a fondo nel linguaggio, meno importante diventa l'immaginario visivo/concettuale, mentre cresce l'importanza del sistema tensivo uditivo,/viscerale/muscolare. Questo perché secondo la biologia i nervi ottici sono collegati al cervello "moderno", mentre i nervi uditivi si collegano in maniera diretta al cervelletto (cerebellum) - il sistema nervoso primitivo, il cervello primordiale ed animale]. La differenza è quella che corre tra la corteccia cerebrale e quella sotto-corticale. Chi ha un po’ di dimestichezza con queste cose saprà anche che il sistema olfattivo è connesso a questo “cervello primordiale” e dunque anche l’odore della volpe che avevamo sentito nella lirica The Thought-Fox smuove qualcosa di profondamente arcaico.

Se in Hawk in the Rain e in Lupercal Hughes aveva tracciato la direzione, con le due raccolte successive: Wodwo e Crow la parola si fa ancora più astratta, più lontana dal piano denotativo, spingendola fino oltre il limite dello stadio pre-logico. Wodwo è il selvaggio contro il quale combatte Sir Gawain nel poemetto del XIV secolo – citato da Hughes ad epigrafe della raccolta – dal titolo Sir Gawain and the Green Knight. Ci sono liriche in Wodwo dove l’inquietudine verbale tocca punti di angosciosa incomprensibilità. Ci sono Thistles [Cardi] che spike the summer air/or crackle open under a blue-black pressure [pungono l'aria estiva/(o schiocchiano aperti sotto una azzurra-nera pressione]. Oppure Ghost Crabs [Granchi Fantasma] che emerge/an invisible disgorging of the sea’s cold [emergono/un invisibile rigurgito del freddo del mare]. O come in Pibroch:

Stone likewise. A pebble is imprisoned
Like nothing in the Universe.

Created for black sleep. Or growing
Conscious of the sun’s red spot occasionally,

Then dreaming it is the foetus of God

***
Così la pietra. Un ciottolo è imprigionato
come nulla nell’Universo.


Creato a un nero sonno. O a farsi
Talvolta cosciente del rosso puntino del sole,
sognando poi che è il feto di Dio.

Prende a delinearsi in Hughes l’idea del poeta come centro recettore e coagulatore delle forze che pervadono l’universo. Dal cardo al semplice sasso. E di come tocchi al poeta il compito di sapere scandagliare quelle forze, reggerne l’urto e tenerle in equilibrio sul filo della follia e della saggezza (Sylvia Plath, ad esempio, aveva indugiato troppo a lungo sul limitare della follia). Una volta vagliate occorrerà imbrigliarle in un gioco infinito che, simile all’infinito sforzo di Sisifo, si rinnova continuamente ogni volta che il poeta ritrova il proprio canto. Il poeta è dunque colui che si assume questo compito a metà via tra lo sciamano e il creatore di miti.

Sciamano perché, secondo Hughes, al poeta spetta il compito di “curare” la comunità attraverso il rito della poesia (rito che, come detto sopra, deve essere continuamente rinnovato): “You choose a subject because it serves, because you need it. We go on wrting poems because one poem never gets the whole account right. There is always something missed. At the end of the ritual up comes a goblin.” [Si sceglie un tema perché serve, perché se ne ha bisogno. Si continuano a scrivere poesie perché non si riesce mai a sistemare il tutto. Manca sempre qualcosa. Alla fine del rito salta sempre fuori uno spiritello maligno.] Creatore di miti nel tentativo di riconciliare gli opposti, o comunque, nel tentativo di raccontarli (è la conclusione delle considerazioni che svolge Lèvi-Strauss nella celebre analisi del mito di Edipo – sia detto incidentalmente ma Crow il protagonista della serie omonima di liriche è l’erede esilarante, tragicomico e da cartoon della figura del “briccone divino” della tradizione indiana Winnebago alla quale il celebre antropologo francese dedicò alcuni studi).

Con Crow, Hughes sembra essere arrivato a definire anche un’unità metrica nuova. Al verso metricamente misurabile si sostituisce il gruppo semantico, il sintagma o talvolta anche una singola parola. Il corvo sembra pronto ad ogni evenienza, nulla lo può scalfire. Attaccato su più fronti come il Tiresia di Eliot sembra avere presofferto tutto:

Crow whistled.
Words attacked him with the glottal bomb -

He wasn’t listening.
Words surrounded and over-ran him with light aspirates -

He was dozing.
Words infiltrated guerrilla labials -

Crow clapped his beak, scratched it.
Words swamped him with consonatal masses -

Corw took a sip of water and thanked heaven.
Words retreated, suddenly afraid

Into the skull of a dead jester
Taking the whole world with them -

But the world did not notice.
And Crow yawned – long ago

He had piched that skull empty

***
Corvo fischiò
Parole lo attaccarono con la bomba glottide -


Lui non vi prestava orecchio.
Parole lo accerchiarono e l’invasero di lievi aspirate -


Lui sonnecchiava.
Parole infiltrarono parole di guerriglia -


Il corvo chiuse d’un colpo il becco, se lo grattò.
Parole l’inondarono di consonanti in massa -


Il corvo prese un sorso d’acqua e ringraziò il cielo.
Le parole si ritirarono, improvvisamente intimorite,


nel teschio di un giullare morto
portandosi via l’intero mondo -


ma il mondo non se ne accorse.
E Corvo sbadigliò – tempo addietro


Col becco aveva svuotato quel teschio.

Con Hughes il ritorno alla Storia si trasforma dunque in una “mitologia”, in una specie di sciamanica e taumaturgica discesa nel profondo. In un’intervista dirà parlando di se stesso e della sua generazione (quella nata negli anni trenta): “Be’ io ero arrivato un po’ più tardi. Non ne avevo avuto abbastanza [si riferisce alla guerra, ai campi di concentramento, alla bomba atomica - n.d.t.]. Ero aperto a tutte le possibili negoziazioni con qualunque cosa vi fosse là fuori.” Abbiamo visto cosa fosse il “là fuori” secondo Hughes: una dimensione multiforme e pluridirezionale, una commistione tra Cielo e Terra che non aveva avuto precedenti nella poesia inglese di questo secolo e che, come sottolineato da più parti, nemmeno ha avuto o sta avendo epigoni. Troppo individuale e poco conciliante sembra la ricerca di Hughes per essere condivisa in poesia. Quella degli anni trenta fu un generazione di isolati. L’altro grande isolato (è Renato Oliva a definirlo tale) fu Geoffrey Hill. Anche lui ebbe il suo bel da fare con tutto quanto stava “là fuori”.

altro…

Tra mitologia e storia: Hughes, Hill e Tomlinson

1.1. Introduzione

Nel corso della I lezione avevamo terminato l’analisi della celebre introduzione (datata 1962) di Alvarez all’antologia edita dalla Penguin – The New Poetry – poco prima della pars construens dell’argomentazione. Avevamo detto che quel volume aveva segnato la fine del Movement con le sue istanze di “mediocrità”, di un’esperienza, quella della poesia degli aani cinquanta, fortemente segnata dalla guerra e da tutto quanto aveva contraddistinto i folli anni dal 1940 al 1945. Riprendendo in mano il volume per occuparci della parte propositiva di quell’introduzione, l’occhio non può non cadere sulla curiosa scelta formale della copertina: ci si trova di fronte un quadro colorato e sfacciatamente multiforme di Jackson Pollock. Per chi fosse entrato in libreria in quegli anni per acquistare il volume significava il segno chiaro ed evidente di un mutamento. L’informale pittorico di derivazione americana scelto per quella copertina era l’indice che qualcosa era cambiato nuovamente. Era tempo di ritornare a considerare le istanze dell’Io, quelle più profonde, quelle segnate dai bisogni, dalla violenza più disturbante. Si trattò, per molti poeti nati negli anni trenta (e qui di seguito tratteremo in particolare di Hughes, Hill e Tomlinson) di dovere affrontare con rinnovato coraggio quel lago oscuro dell’anima che buona parte della poesia degli anni cinquanta aveva evitato di dragare.

Si trattò, in poche parole, di andare “oltre” il principio della “gentility” – così recitava il titolo dell’introduzione di Alvarez. Quell’oltre indicò anche e prima di tutto un limite geografico. Se la poesia del Movement aveva cercato in patria i propri eroi (leggi Hardy e tutto quanto detto sulla English Line) ora lo sguardo viene rivolto all’America. Tomlinson legge Williams Carlos Williams che con il suo Paterson aveva dato linfa vitale al modernismo americano ridisegnandone la storia. I primi quattro autori selezionati dall’antologia di Alvarez sono americani: John Berryman, Robert Lowell, Anne Sexton e Sylvia Plath. Quest’ultima, dopo essersi trasferita in Inghilterra sposerà Ted Hughes prima di morire suicida a soli trentuno anni. Anche John Berryman sarebbe morto suicida a testimonianza di una generazione che, decidendo di “scendere in profondità”, spesso non fu più capace di ritrovare la via del ritorno verso la superficie. Ulteriore elemento significativo da prendere in considerazione è che dietro alla poesia di questi “nuovi” americani stavano poeti come Walt Whitman, come Emily Dickinson, come il già citato Williams. Autori i quali, verticalmente od orizzontalmente, avevano contribuito ad allargare in maniera decisiva l’orizzonte visivo dell’anima poetica. Autori, in particolare modo Whitman e Williams, che avevano rigenerato il territorio e il mito americano, la solida dura terra sulla quale poggiavano i piedi. La lezione arrivò senza filtri alle orecchie attente di poeti quali Hughes ed Hill: furono loro a cercare un nuovo rapporto, anche di linguaggio, di vernacolo e dialetto, con le loro terre di origine.

L’oltre geografico fu anche un progressivo decentramento della produzione poetica la quale, dai tradizionali luoghi deputati – avevamo visto come sei dei nove poeti antologizzati da Conquest fossero universitari – si muove verso la periferia. Nasce attorno alla rivista The Stand del poeta Silkin, pubblicata dapprima a Newcastle negli anni cinquanta ma tornata a fiorire dal sessanta in poi a Leeds, un polo ideale per le scritture della “provincia” e della “periferia”. Dal nord, in particolare: da quell’esperienza usciranno due poeti come Douglas Dunn (scozzese) e Tony Harrison (nativo di Leeds) che saranno molto importanti per tutta la poesia degli anni settanta. Si cominciano a tradurre i poeti dell’est (Milosz,, Vasko Popa) su iniziativa di nuove, meno potenti ma più intraprendenti case editrici locali.

Cosa c’era dunque, per Alvarez, oltre il principio della “gentility”? Quale la parte propositiva della sua poesia nuova? Stava la ricerca di una nuova “depth poetry” capace di sapere unire “the pshychological insight and integrity of D.H. Lawrence with the technical skill and formal intelligence of T.S Eliot” [la capacità di analisi interiore di D.H.Lawrence con l'abilità tecnica e l'intelligenza formale di T.S.Eliot]. La bilancia della storia tornava verso le istanze del modernismo. Ma qualcosa era mutato, la scrittura nevrotica ed entropica di Eliot doveva ora confrontarsi con una nuova storia fatta anche di orrori e immagini irriconciliabili con la “dignità” umana. Ted Hughes e Geoffrey Hill erano pronti per svolgere la lezione di Alvarez.

Segnale evidente del mutare dei tempi, inoltre, era arrivato con la pubblicazione in Inghilterra nel 1960, dopo lunga battaglia legale e relativo processo, di Lady Chatterley’s Lover di D.H. Lawrence. Quello stesso Lawrence che tra i primi si era cimentato nella “divulgazione” della psicoanalisi nei celebri saggi di Fantasia of The Unconscious e Pshycoanalysis and the Unconscious. Tutta l’opera di Lawrence (morto nel 1930), anche quella poetica, venne recuperata sul crescente e rinnovato interesse per la psicologia del profondo e di Freud in particolare.

L’Io neutrale di Larkin, l’atteggiamento per così dire “separato” predicato dalle liriche di buona parte degli autori del Movement conosce e subisce notevoli modificazioni. Ci si ritrova di fronte alla coincidenza “pubblica” dell’Io che parla dai testi e l’Io che fisicamente li enuncia esponendo dunque se stesso “in persona” al giudizio del pubblico dei lettori – questo nelle esperienze delle numerose poetry readings che cominciano a tenersi in quegli anni. Ma c’è anche il progressivo disgregamento dell’Io – molto vicino a perdere il confine netto che lo divide dalla Natura – che ci racconta Hughes in buona parte della sua produzione poetica dalla fine degli anni cinquanta ai primi anni sessanta. La lezione di Hughes porta il lettore a sondare terreni e spazi interiori che sembravano dimenticati. L’inevitabile e conseguente ricerca di un linguaggio nuovo per tentare di descrivere questa realtà rappresenta un’impresa titanica che talvolta fallisce sotto il peso di una difficoltà estrema e insuperabile. Ma quando gli esiti sono felici siamo vicini allo scandaglio eliotiano della Waste Land.

1.2. Tra Underground e Pop: I Liverpool Poets

Gli anni sessanta videro l’esplosione di una serie di esperienze poetiche multiformi che portarono la ricerca poetica non solo verso una nuova dimensione verticale ma anche alla ricerca di una più espansa “orizzontalità”. La lezione americana non arrivò solo dai vari Lowell, Plath, Berryman, ma anche dalla “beat generation” di Ginsberg e Kerouac. Fu l’inizio dei mille raduni all’insegna della musica e della poesia, di una nuova ricerca sull’oralità della parola che contagiò anche i poeti più seriosi e meno inclini alla dimensione pubblica (si veda a tale proposito Ted Hughes). Come scrive Renato Oliva: “La poesia tende a farsi esperienza comunitaria, vissuta, a non consegnarsi esclusivamente al libro, che la congelerebbe in una dimensione definitiva e la relegherebbe nella sfera del privato … Si diffonde, sulla scia dell’esempio americano, l’abitudine dei poetry readings nelle forme più sobrie dei jazz and poetry concerts o in quelle più vicine all’happening di Live New Departures“.

Nascono collane di case editrici e volumi dedicati a questa nuova forma poetica: la Children of Albion di uno degli animatori della scena culturale underground e pop di quegli anni: Mike Orovitz. Nel 1965 si celebra alla Royal Albert Hall di Londra (il tempio ufficiale della cultura inglese – segno anche di un inevitabile e progressiva istituzionalizzazione dell’incatturabile parola “parlata”) la prima International Poetry Incarnation. Partecipano e leggono, oltre ad una marea di poeti inglesi, gli immancabili Ginsberg, Corso e Ferlinghetti.

Nacquero movimenti e gruppi quali i celebri Liverpool Poets con Henri, Patten e McGough che ottengono una grande popolarità con la pubblicazione dei loro versi in antologie (celebri sono rimaste The Mersey Sound – 1967 e The Liverpool Scene – 1967). Fu il trionfo di una curiosa e spesso divertente instant poetry – “di rapida preparazione e immediato consumo, una poesia da scrivere sul primo foglio che capita e da spedire in busta agli amici”. Una poesia – come aggiunge Oliva “per una gioventù urbana (appartenente ai ceti meno abbienti che, se vuole un po’ di bellezza, deve trovarsela nei fiori e nei piatti di plastica, nelle insegne al neon e nelle luci dei semafori, nel rosso di un impermeabile o di una cabina telefonica, nel kitsch multicolore della biancheria intima da supermercato.”


Un esempio? Ecco una celebre lirica di McGough 

(Comeclose and Sleepnow)

it is afterwards
and you talk on tiptoe
happy to be part
of the darkness
lips becoming limp
a prelude to tiredness.
Comeclose and Sleepnow
for in the morning
when a policeman
disguised as the sun
creeps into the room
and your mother
disguised as birds
calls from the trees
you will put on a dress of guilt
and shoes with broken high ideals
and refusing coffes
run
alltheway
home


Vieni qui Adesso dorm
dopo:
e tu parli in punta di piedi
felice di fare parte
del buio
le labbra che si afflosciano
preludio alla stanchezza.
Vieniqui Adessodormi
perché domattina
quando un poliziotto
travestito da sole
striscerà furtivo nella stanza
e tua madre
travestita da uccelli
chiamerà dagli alberi
indosserai un abito di colpa
scarpe dai tacchi altezzosi e rotti
e senza prendere il caffè
scapperai
a casa di corsa.

Questa esperienza poetica destinata ad esaurirsi in breve tempo ebbe, se non altro, il grande merito di portare la poesia ad un pubblico meno intellettuale, lontano dalle università, per le strade, tra i tabloid più popolari. Molti quotidiani cominciarono a pubblicare poesie con buona regolarità e da allora questa abitudine non è cessata. Accanto agli editoriali (fu quello che successe con Harrison, ad esempio, durante le guerra del Golfo) non era improbabile trovare una o due liriche di qualche poeta noto oppure emergente. Fu il segno che alcuni centri di potere culturale (da Oxford a Cambridge, passando per Londra) cominciavano a cedere il passo a quella che sarebbe stata dapprima una sana “democratizzazione” per poi trasformarsi in una pericolosa deriva e proliferazione culturale difficilmente controllabile.

1.3. La reazione intellettuale: il Group

Il Movement si spense dunque per estinzione naturale. E se alcuni poeti trovarono spazio anche sull’antologia di Alvarez (Gunn, ad esempio ma sappiamo il motivo dalla I lezione); lo stesso Donald Davie che da teorico del Movimento diventò critico più distaccato – intorno ai primi anni sessanta scriverà che le poetiche di soli dieci anni prima sembravano già così remote – di Movement si finì davvero con il parlare solo come punto di partenza per qualcosa di nuovo. Intorno agli anni cinquanta era nato un altro movimento che ebbe una certa rilevanza culturale: il cosiddetto Group. Nato a Cambridge negli anni cinquanta su iniziativa di Hobsbaum (lo stesso che, pochi anni dopo, in qualità di docente presso la Queen’s University di Belfast incoraggiò e aiutò giovani talenti nordirlandesi – allora solo studenti universitari – quali Seamus Heaney, Michael Longley e Derek Mahon), il Group si trasferì poi a Londra. Ebbe anch’esso, lo abbiamo visto, non se ne poteva fare a meno, la sua bella antologia – A Group Anthology curata da Edward Lucie-Smith nel 1963. Da quell’introduzione si legge: “L’unico principio che sottoscriveremmo tutti è che la poesia può essere oggetto di discussione, o, che in altri termini, il processo poetico, il funzionamento delle parole nella poesia, è passibile di esame razionale. Accettare un principio del genere per certi poeti è, naturalmente, impossibile, costoro non partecipano alle nostre riunioni. Ma entro questi limiti, le nostre fedi – religiose, politiche, sociali e letterarie – hanno sfumature diverse.”

Quello che Edward Lucie-Smith vuole sottolineare è la presenza di personalità poetiche molto diverse che però si riconoscono in una dimensione “pubblica” della poesia, nel senso di analisi e dibattito pubblico. Fra le regole da seguire, infatti (alcune sono poco più che semplici note di colore) per intervenire alle riunioni del Group: niente alcolici, solo tè, fine delle riunioni non più tardi delle undici di sera, diffusione dei testi da leggere in modo tale che tutti avessero sott’occhio quanto si andava discutendo.

E che le personalità poetiche fossero diverse non v’è davvero dubbio: alle riunioni del Group parteciparono Ted Hughes ma anche il “surrealista” George Macbeth, l’australiano, di nascita (ma dal 1951 vive a Londra) Peter Porter, l’amico di quest’ultimo Peter Redgrove – per citare autori che ebbero un futuro artistico e dunque continuarono a pubblicare.

Se una caratteristica tematica comune contraddistinse i poeti che fecero parte del Group questa fu, ancora nelle parole di Lucie-Smith: “un senso generale di terrore legato ai tempi: uno stato d’animo che emergeva piuttosto violentemente in talune fantasie di Redgrove e nelle composizione di MacBeth e di Porter”.

Come già detto prima in quel “senso generale di terrore” era insita una nuova direzione di ricerca che, per quanto difficile, rimaneva comunque necessaria.

L’esperienza del Group ebbe un notevole successo sui mass-media al punto che la BBC cominciò a collegarsi in diretta durante le serate di riunione e discussione tra i poeti. Con la grande popolarità arrivarono tuttavia minore spontaneità, confronti meno serrati e andò dunque irrimediabilmente perso quello che era il senso ultimo dell’esperienza “comunitaria” dei poeti del Group.

1.4. Conclusioni

In conclusione, la poesia anti-Movement degli anni sessanta si caratterizzò per una serie di mutamenti che, ancora una volta, furono il riflesso e la conseguenza di alcuni mutamenti sociali e di costume. La “post-imperial tristesse” che aveva “congelato” buona parte della poesia degli anni cinquanta (leggi Movement) si scioglie dinanzi all’insorgere di nuove esigenze. La prima, come abbiamo visto, è quella di un confronto più serrato e più profondo con l’Io e con la Storia. L’anestesia da troppa sofferenza seguita alla seconda guerra mondiale cessò e tutto il “terrore” ricominciò ad essere elaborato e masticato come ghiaia sotto i denti. Questo nuovo confronto con l’Io e con La Storia significò tornare a radici più antiche e profonde ai confini del mito (come nella poesia di Hughes) – o rianalizzare l’eterno rinascere di violenza/pace nella Storia con la S maiuscola (in molti dei testi di Hill ed in particolare nei Mercian Hymns).

Furono anni di sprovincializzazione della cultura: sia nel senso che si cominciò a guardare oltre i confini (gli Stati Uniti e tanta poesia europea che comincia ad arrivare in traduzione) sia all’interno con la nascita di nuovi centri di diffusione culturale.

Nacquero nuovi “gruppi” lontanissimi in quanto a poetica espressa: abbiamo visto il lato “impegnato” del Group ma anche quello più giovanilisticamente ribelle dei Liverpool Poets.

Il tono un po’ canzonatorio di una celebre lirica di Larkin saluta l’arrivo di un decennio per molti e diversi motivi piuttosto interessante (e così prendiamo congedo da Larkin e dal suo caro Movement):

Annus Mirabilis
Sexual intercourse began
In nineteen sixty-three
(Which was rather late for me) -
Between the end of the Chatterley ban
And the Beatles’ first LP.


[I rapporti d'amore iniziarono
Nell'anno millenovecentosessantatré
(Piuttosto tardi per me) -
Tra la fine della messa al bando di Chatterley
E l'uscita dei Beatles col loro primo trentatré.]

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