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giovedì 18 marzo 2010
Sylvia Plath, Opere
17:51 |
Pubblicato da
rimmel |
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Sylvia Plath, scrittrice che oppose una posizione di duro rifiuto dell’oppressione maschile, e per questo simbolo delle battaglie femministe negli anni ’60, nacque a Boston nel 1932, da padre entomologo e madre casalinga.
La sua carriera scolastica fu ottima e brillante; scrisse con successo e conseguì molti premi, uno dei quali la condusse a New York, ospite di un’importante rivista del tempo, ma questa città, col suo ritmo di vita frenetico ed ossessionante, in fondo vuota, la sconvolse.
Tornata a casa non riuscì più a dormire, a mangiare, a scrivere. Andò da uno psichiatra che le praticò l’elettroshock, tentò il suicidio, fu salvata, entrò in manicomio.La psicoterapia e gli elettroshock le consentirono di abbandonare ben presto la clinica, e la sua vita riprese con l’università, i corsi di poesia, la tesi di laurea su Dostoewskij e l’amore per il poeta inglese Ted Hughues, che sposò dopo qualche tempo.
Per Sylvia, educata ai valori della società americana, il successo era fondamentale, ma la nuova condizione di moglie era un ricatto continuo alla sua attività di scrittrice.
Inizialmente svolse in modo normale le mansioni di casalinga e di moglie, e la sua creatività non venne meno, anzi, intraprese con successo la strada della poesia, ma poi nacquero i figli e la sua vita cominciò a trascinarsi su un binario monotono, e la maternità, da gesto creativo, diventò fonte di frustrazione e causa di depressione; infine scoprì di essere diventata irrimediabilmente la moglie, con la consapevolezza che, dall’altra parte c’era l’amante, perché il suo Ted la tradiva. Sylvia si separò e portò i figli con sé, cominciando a vivere in ristrettezze economiche.
E’ proprio in questo periodo che esplose la sua attività letteraria; nel 1960 pubblicò “The Colossus”, presentazione immediata del suo stile personale ed elaborato e, come tentativo di liberazione, andando indietro nel tempo, testimonianza del suo crollo psichico, scrisse il romanzo “The Bell Jar”, in italiano “La campana di vetro”, che pubblicò nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lewis.
Definito anche la storia di una schizofrenica, più che la ricostruzione di una patologia, “La campana di vetro” è la testimonianza del disperato bisogno di affermazione di una donna lacerata dal conflitto irrisolto tra le aspirazioni personali ed il ruolo imposto dalla società, conflitto che, già a diciassette anni, la spingeva a scrivere:…Ho paura di crescere. Ho paura di sposarmi. Non voglio ridurmi a cucinare tre pasti al giorno, essere intrappolata nel tran tran quotidiano. Voglio essere libera… (“Letters home”).
Sylvia non era “matta”, era solo una donna fragile, sensibile e in crisi, che aveva tentato di seppellire l’ansia di libertà e la vocazione di scrittrice in un matrimonio apparentemente felice; infatti non rifiutò mai il suo ruolo, tentò fino alla fine di conciliarlo con le sue aspirazioni, di giorno faceva la madre, accudendo rigorosamente ai suoi figli, alla notte rubava qualche ora per scrivere, cercando di soffocare il proprio istinto di ribellione che riversava solo nelle poesie e che cercava, poi, di farsi perdonare comportandosi da figlia, moglie e madre esemplare:.. non è vero quello che scrivo, sono buona, sono felice, rispetto le regole, lo prova la mia vita, ho fatto tutto quello che una donna deve fare…(“Letters home”), ma poi le aspirazioni a lungo represse riemersero con prepotenza, e le costarono la fine del legame matrimoniale, la solitudine e la morte.
Torturata dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo tradizionale di moglie e di madre, lacerata dal conflitto dall’essere per sé e dall’essere per gli altri, in qualche modo, per scrivere poesie, ho bisogno di sapere che ho davanti a me tutto il tempo che voglio: niente pasti da cucinare, niente libri… Sylvia lasciò un’infinità di poesie violente e disperate ed un unico elemento di disordine nella cucina del suo appartamento: il suo corpo senza vita.
Un mese dopo la pubblicazione del romanzo depose pane e latte accanto ai letti dei suoi figli,aprì le imposte della loro stanza, sigillò porte e finestre con nastro adesivo e asciugamani, scese in cucina, aprì il gas, infilò la testa nel forno e si lasciò morire.
Sei giorni prima aveva scritto l’ultima poesia, “Limite”, spedita il giorno stesso all’ “Observer”, poi pubblicata postuma.
In tutte le opere di Sylvia Plath i personaggi vivono situazioni difficili, giovani, donne, ribelli, disadattati, perché attraverso la sua poesia la scrittrice cercava di esorcizzare le drammatiche esperienze di vita personali e, soprattutto, il tormentato rapporto avuto fin dall’infanzia con le figure maschili, a cominciare dal padre, morto quando lei era bambina, ma che aveva condizionato tutta la famiglia con la sua rigidità, per finire con quello ugualmente difficile con Ted, e questo la condusse ad una posizione di duro rifiuto dell’oppressione maschile che la rese, all’epoca, simbolo delle battaglie femministe, ma che ancora oggi sorprende per la sua modernità.
Con questa identificazione femminista non bisogna, comunque, limitare il valore della scrittura di Sylvia Plath che, pur autobiografica, tuttavia rivela un’eccezionale capacità lirica ed un uso sapiente, quasi magico della parola. La sua abilità di riversare l’angoscia nelle parole toccano con forza ancora oggi le corde più profonde della sensibilità, non solo delle donne, è per questo che, pur se saldamente ancorata alla letteratura americana, continua ad essere molto amata ed apprezzata anche in occidente.
Carla Benecchi
“La rivedo opaca contro un cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama…Era alta, snella, con il busto lungo e fragile, i gomiti aguzzi, era nervosa, imbarazzata, gentile… una presenza tesa e brillante che la timidezza paralizzava. La sua umiltà, la sua disponibilità ad accettare tutto quanto veniva generalmente ammirato, parevano darle a volte un’esasperante docilità che nascondeva la sua pazienza e la sua audacia fuori moda”.
Così disse di lei il poeta americano Robert Lowell, che ebbe modo di conoscerla alla Boston University durante un corso di scrittura poetica.
Bostoniana di madre austriaca e padre tedesco, dalla cui precoce perdita riportò un profondo trauma che la rese perennemente vulnerabile, la Plath visse con un’insaziabile sete d’amore che mai riuscì a colmare. Da un’identità scissa e tormentata emersero frustranti proiezioni a ricreare il mondo a sua immagine, avulso dal quotidiano ripetitivo ed inappagato e nello scontro con una realtà che non ne reggeva il confronto, cominciarono a pulsare in lei fortissimi stimoli creativi riversati sotto forma di scrittura. L’innesto letterario nella sfera del “privato” divenne presto materia e angoscia del suo vivere, accentrato dal pensiero febbrile del successo e dai confronti editoriali spesso avversi
Insicura e divorata da un’ansia esistenziale cercò sempre negli altri da cui dipendeva affettivamente l’approvazione del proprio “sé”. Quella carenza di autostima derivatale dalla mancanza della figura paterna e da un rapporto conflittuale con quella materna, determinò in lei l’insorgere frequente di crisi depressive che la portarono a trasporre l’umore del momento in forma poetica e diaristica. E nei diari ferve il germe di quasi tutta la sua opera, dalle prime impurità espressive rivolte a un vissuto familiare mai rimosso alle inquiete turbolenze adolescenziali, da incontri effimeri e deludenti all’esaltazione amorosa del legame matrimoniale con il poeta inglese Ted Hughes. Fu passione grande e predatoria per entrambi, fu affinità elettiva condivisa fino allo spasmo, fu ludica creatività artistica, fu alleanza e contesa, fu in seguito sofferta cesura dell’unione per le differenti personalità: terrena e solida dell’uno, nevroticamente americana dell’altra. Scriverà Hughes in “Lettere di compleanno” trentacinque anni dopo rompendo il suo silenzio:
“…A quale bivio avevamo preso la strada sbagliata?
… E questo era ciò che avevamo scelto alla fine.
Nel ricordarlo vedo tutto in una bolla
… Una piovosa foto di nozze su una tomba straniera,
tra i gigli e appena sotto, non viste le ossa vere
che ancora subiscono tutto”.
A disvelamento egoico della propria vita emotiva, la Plath concepì la poesia come rifugio in cui si identificò da protagonista vivendo la polarità di eroina e ostaggio di se stessa. Inquietanti furono le muse della sua tematica letteraria mediata e fortemente autobiografica. La morte del padre per sempre idealizzato, vissuta come abbandono fisico ed affettivo ritorna in molti versi di odio- amore:
“Ho avuto sempre terrore di te.
… Non un Dio ma svastica nera…
Tu stai alla lavagna papà
Nella foto che ho di te
… Sempre uomo nero che
Con un morso il cuore mi fende
Avevo dieci anni che seppellirono te
A venti cercai di morire
e tornare tornare te.
Anche le ossa mi potevano servire. (Daddy)
E nella versione romanzata della “Campana di vetro” il cui implicito risvolto privato commenta il tentato suicidio dei suoi vent’anni, giace larvatamente l’atto di accusa contro l’ambizione e la vanità della genitrice, rivelando un rapporto di dolorosa dipendenza espresso con lacerante lucidità nella lirica
“La luna e il cipresso”:
“Il cipresso punta in su. Ha un profilo gotico
Gli occhi seguendolo trovano la luna
La luna è mia madre. Non è dolce come Maria.
Le sue azzurre vesti sprigionano pipistrelli e civette.
Come vorrei credere nella tenerezza.
Il volto dell’effigie, ingentilito da candele
Chino proprio su me, i suoi miti occhi”.
L’immagine della luna, elemento vocativo ed evocativo, è ricorrente nei testi plathiani. L’io poetico penetra l’algida malia lunare in tutte le sue fasi fino ad assorbirne le maschere come proprie o trasporle in tratti altrui. La Plath non è creatura solare: “Nel sole c’era la magia della decadenza”, il sole simbolo di luce, di calore, di virilità è accennato raramente con enfasi nelle note diaristiche. “Sdraiata sulla roccia, il corpo teso, poi rilassato, sull’altare, mi sembrava di essere deliziosamente violentata dal sole, empita di calore dall’impersonale e colosssale dio della natura”. Il sole in quanto polo maschile è per lei, che dotata di esaltante vittimismo ne subisce la violenza metaforica, ambigua valenza di rivalità-identificazione con l’uomo.
Sylvia è quindi più creatura notturna, è falena, aerea:
“Nutrimi con bacche di buio.
Le palpebre non si chiudono.
Il tempo srotola dal grande ombelico del sole
Il suo eterno scintillio.Devo ingoiare tutto ciò.
Signora chi sono questi altri nella tinozza della luna
Ubriachi di sonno con membra scomposte?
In questa luce il sangue è nero. Dimmi il tuo nome.”
( Menade)
Sylvia è selenica, ciclica nei suoi umori come le lunazioni: “Senza la maschera, cammino parlando con la luna, con la forza neutrale e impersonale che non ascolta, ma si limita ad accettare la mia esistenza. E non mi fulmina.” E ancora in questi brevi frammenti prosastici dove predomina la valenza di una sensorialità visiva unita a un pregnante cromatismo, la trama testuale costruita su metafore si apre come una ferita: “Il vento ha spinto sul mare una luna giallo intenso: una luna bulbosa che germina nel cielo indaco sporco e sparge occhieggianti petali luminosi sulla nera acqua fremente”.
Notazioni cromatiche ricorrenti in quasi tutto il suo iter poetico, fermentano spesso attorno ad un fulcro germinale di tipo visivo o affiorano velatamente da accenni a tecniche pittoriche. La ricerca spasmodica e disciplinare di una perfezione assoluta nella stesura dei testi a perseguire ostinatamente l’anelata autoaffermazione, la totale ammirazione verso i grandi scrittori e l’impulso a seguirne le orme, maturarono in lei un processo interiore di esasperata emulazione fino a trascendere in forme fobiche ed ossessive. Vissuta e calata nel mito della poesia emerse netta dalla sua personalità fragile ed ostinata al tempo stesso quella osmosi intellettuale- esistenziale simbiotica al suo essere donna e scrittrice in un alternarsi di ruoli complementari e inscindibili. La Plath, donna vittima continua a vivere perché la Plath scrittrice necesssita di metafore. Di sé disse: “Sono affascinata dalle due polarità di musa poetessa e madre casalinga. Quando ero felice a casa mi sentivo imbavagliata. Ora che la mia vita domestica è nel caos, scrivendo in stato febbrile e tirando fuori cose che avevo seppellito dentro di me da anni, mi sento stordita e molto fortunata”.
Lontana dalla misura quotidiana del “sé” la scrittura diventa un’appendice alata aperta alla libertà per esorcizzare il disagio intimo, l’isolamento immaginario, il flusso indistinto di sensazioni in un’apparente metamorfosi salvifica:“…Scrivere mi rende una piccola dea: ricreo il flusso e l’urto del mondo attraverso i miei piccoli schemi di parole ordinate. Possiedo capacità fisiche, intellettuali, emotive che devono trovare sbocchi creativi, altrimenti si trasformano in rovina e desolazione”.
La morte fu la parola chiave che intramò la sua breve vita e si riflesse con un rapporto dialogico e conciliativo in tutta la sua opera. Dai diari alle liriche, dai saggi al carteggio epistolare, ella espresse la nevrosi esistenziale del corpo e della psiche, con infinite possibilità di morti e resurrezioni, di bagliori riattinti un attimo prima della svolta verso il nulla, d’improvvise discese verso bui anditi fino all’epifanica scelta. Dopo il primo tentato suicidio, spesso in balia di ricoveri e degenze in cliniche psichiatriche troppo corrive all’elettroschock, visse situazioni deliranti e drammatiche che intessero l’ordito del suo percorso creativo, elaborando un versificare analitico in cui l’io narrante evocava stati di sdopppiamento e autodostruzione.
Né il matrimonio né la maternità riuscirono a plasmare e mitigare la sua fragilità di fondo: la sua stessa figura calata in ruoli diversi di madre, moglie, amante, scrittrice, inquieta poetessa, la portò a bruciarsi come una falena notturna. La Plath divenne la portavoce delle generazioni arrabbiate e disilluse, la donna contemporanea dai tanti volti, dalle tante maschere per celare il vuoto di un’esistenza alienata. Alle soglie degli anni ’60 si tolse la vita con un gesto estremo che nulla sottrasse e nulla aggiunse alla sua sofferta ricerca esistenziale
“Io non volevo fiori, volevo solamente
Giacere a palme riverse ed essere tutta vuota.
… La pace è così grande che abbaglia
e non chiede nulla
… E’ il finale cui approdano i morti.”
( Tulips)
La morte tanto invocata nei suoi versi come liberazione, l’audacia di fissarne i contorni e di accettarne lucidamente il gelido soffio, fu per lei una sorta di espiazione sacrificale del dono poetico, ma è con l’essere donna negli anni delle grandi trasformazioni che ella toccò tutte le rilevanti contraddizioni che in seguito segnarono altre generazioni femminili. Trovare comunque un responso fra l’ottimismo della volontà ed il pessimismo della ragione è ancora oggi una sfida come lo fu per lei allora.
“Ariel” il cui titolo evoca il personaggio shakespeariano di ambigua identità, è la raccolta che postuma le riconobbe l’anelata fama. Nascerà da una gestazione sofferta e febbrile, ultima scarna fertilità prima dell’atto finale, in cui la Plath darà voce al suo vero “io”, spoglia di infinite maschere per consegnarsi al fato con l’umiltà di porsi entro i suoi confini, nuda a rinascere:
“La donna è a perfezione: Il suo morto
Corpo ha il sorriso del compimento
Un’illusione di greca necessità
Scorre lungo i drappeggi della sua toga
Niente di cui ha rattristarsi la luna
Che guarda dal suo cappuccio d’osso.
… A certe cose è ormai abituata:
Crepitano, si tendono le sue macchie nere”.
Come musica infraudita, rimerà Ted Hughes dal dolore sottaciuto, l’essenza del suo ricordo:
“maschere della luna piena o straripante o vuota
che capovolse il tuo cuore
e lo svuotò. Mentre volavi
intasarono tutte le tue lunghezze d’onda
…crepitando e tirando i loro veli neri
sul tuo volto declinante,
…all’ultimo brandello dell’alba esplosa
nel tuo pugno … quel lunedì”.
E ancora con inflessione timbrica accorata:
“Di là vedo il velato barbaglio marino
delle tue estasi, le tue visioni nel cristallo.
Di qua la lampada irreparabilmente infranta
nella mia cripta di sogno, tenebra totale
sotto la pietra della tua tomba.”
( 1932- 1963)
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1 commenti:
Sarebbe corretto specificare che la biografia di Sylvia Plath è tratta dal mio libro:
Francesca Santucci, "Donna non sol ma torna musa all'arte", Il Foglio 2003.
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