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Lettori fissi

giovedì 18 marzo 2010

Sylvia e Anna

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Traduzione di Claudia Rusconi e Gloria Gordigiani
 
Due poetesse americane, due destini incredibilmente simili: Sylvia Plath e Anne Sexton. Bostoniane entrambe, si conobbero nel 1959 ai seminari di poesia di Robert Lowell. Ne nacquero insieme un’amicizia e una rivalità, fondate sul reciproco riconoscimento delle rispettive, grandi qualità letterarie. Anne veniva da un passato di “casalinga” dell’alta società che aveva deciso di lasciarsi alle spalle per seguire la propria vocazione. Sylvia era combattuta tra un fortissimo bisogno di maternità e l’altrettanto incontenibile desiderio di emergere, di essere riconosciuta e apprezzata come scrittrice. Cercavano ambedue di risolvere con la psicoanalisi i loro problemi, ed erano portatrici di una strabiliante vitalità, solo in apparenza contraddetta dalle pulsioni di morte che non di rado le visitavano. Infine, Sylvia sarebbe morta suicida nel 1963 a Londra, dove s’era trasferita col marito Ted Hughes. Anne l’avrebbe imitata poco più di dieci anni dopo, uccidendosi a Boston nel 1974. Il 25 novembre usciranno due libri importanti per conoscere meglio il loro mondo: da Adelphi, i preziosi Diari di Sylvia Plath e, edita da Le Lettere, la biografia di Diane Wood Middlebrook Anne Sexton – Una vita. Dal primo, presentiamo parte dell’introduzione scritta da Ted Hughes e una selezione di pagine che fanno luce su alcune delle più tipiche figure e ossessioni del mondo della Plath. Dal secondo, brani relativi all’incontro tra le due scrittrici e alla reazione di Anne alla notizia della scomparsa di Sylvia.
In quanto testimonianze, i diari di Sylvia Plath sono diversi dai suoi romanzi, poesie, saggi e lettere, ed è auspicabile che la loro pubblicazione si riveli utile. Quasi tutti i suoi scritti giovanili (e sicuramente tutta la prosa da lei destinata alla stampa) risentono dell’ambizione di vedere i suoi lavori pubblicati su determinate riviste e degli sforzi di produrre quel che il mercato sembrava richiedere. L’impulso di seguire le orme di vari maestri e di adattare la sua scrittura a usi pratici e remunerativi era in lei quasi istintivo. E, come dimostrano i suoi diari, lo mise in atto con passione implacabile, per quanto febbrilmente percorsa da dubbi e incertezze. L’ostinato perseguimento di un simile ideale è responsabile di tutto ciò che nella sua opera appare artificio. Eppure il lettore partecipe di queste pagine sarà in grado di vedere che questo fu forse solo un aspetto – e uno dei meno rilevanti – di una spinta che si muoveva in tutt’altra direzione. Ciò che stava realmente avvenendo in lei è paragonabile a un processo alchemico. I suoi primissimi scritti erano simili a impurità emesse ai vari stadi della trasformazione interiore, sottoprodotti di un lavorìo che avveniva nel profondo. Nel caso di Sylvia Plath è più che lecito usare questi termini. Malgrado la cura che metteva in ogni cosa che scriveva, non appena era finita se la gettava dietro le spalle con una sorta di disprezzo, talvolta con rabbia. [...] Sylvia Plath rivelava qualcosa di violento in questo, qualcosa di molto primitivo, forse di molto femminile; la disposizione, perfino l’esigenza, vividamente espressa a ogni livello dell’essere, a sacrificare tutto a una nuova nascita. Logicamente, il lato negativo di questo atteggiamento è il suicidio. Ma quello positivo (più familiare in termini religiosi) è la morte del vecchio e falso io al momento della nascita dell’io nuovo e autentico. E alla fine, dopo un lungo e doloroso travaglio, fu questo il traguardo che raggiunse. Ariel e le altre poesie più tarde danno voce a quell’io. Sono la prova del suo avvento. Tutti gli altri scritti, a parte i diari, non sono altro che le scorie di questa gestazione. Sylvia Plath era una persona dalle molte maschere, sia negli scritti che nella vita privata. Alcune consistevano in tipici travestimenti esteriori, meccanismi difensivi, involontari. Altre erano pose deliberate, tentativi di trovare la chiave di uno stile qualsiasi: le facce visibili dei suoi io minori, falsi o provvisori, personaggi secondari del suo dramma interiore. Sebbene abbia vissuto con lei ogni giorno per sei anni, e poche volte mi sia allontanato per più di due o tre ore di seguito, non l’ho mai vista esternare il suo vero io a nessuno; salvo, forse, negli ultimi tre mesi di vita. Il suo vero io si era mostrato nei suoi scritti, per un solo istante, tre anni prima, e quando lo udii – dopotutto era l’io che avevo sposato, con cui vivevo e che conoscevo bene – in quel breve istante, dai tre versi che lei recitò sulla soglia uscendo da una stanza, seppi che ciò che avevo sempre intuito dovesse accadere si stava avverando, che la sua personalità più autentica, la vera poetessa che era in lei, ora si sarebbe espressa e avrebbe eliminato tutti quegli io minori, artificiali che avevano monopolizzato le parole fino a quel momento: fu come se improvvisamente avesse parlato un muto. Il vero io, si sa, è una cosa rara. E che il vero io si esprima è ancor più raro. Dove esiste, di regola il vero io di una persona si rivela soltanto nella qualità della presenza di quella persona, oppure nelle sue azioni. Quasi tutti noi non siamo mai altro che un fascio di personalità contraddittorie e complementari. Il vero io, se la nostra convinzione di possederne uno è fondata, generalmente è muto, sepolto sotto il brusìo delle voci conflittuali di personalità false, insignificanti. Come se il mutismo fosse la caratteristica universale di ogni vero io. Quando il vero io trova la parola e riesce a esprimersi, allora accade qualcosa di straordinario: come Ariel. Ma a parte il suo linguaggio – quella strana sostanza vitale che esso sembra assumere nella poesia – Ariel rivela ben poco delle circostanze concrete e del decisivo dramma interiore da cui è scaturito. Forse è stata questa estrema povertà di particolari concreti a scatenare le più folli fantasie che altri hanno attribuito a Sylvia Plath. Noi rispondiamo al linguaggio, a quella sostanza piena di fascino che è ovunque pienamente se stessa, mai edulcorata o ordinaria – ma possiamo soltanto discuterne, oppure esprimere le sensazioni che ci evoca, limitandoci all’esteriorità, al dramma della maschera psicologica che lei indossava, ai casi della sua vita. È qui che i diari si rivelano diversi da tutti gli altri suoi scritti, perché è nei diari che lei annota, soltanto per se stessa, la lotta quotidiana con i suoi io conflittuali. È questa la sua autobiografia, tutt’altro che completa, ma articolata e minuziosa, nella quale si è sforzata di osservarsi onestamente e ha lottato per trovare una strada facendo e disfacendo se stessa. E la Sylvia Plath che possiamo indovinare in queste pagine è quanto di più vicino a ciò che lei era davvero nella vita di tutti i giorni. Ted Hughes Sabato 27 dicembre 1958. Ieri un lungo, profondissimo incontro con R. B. [Ruth Beuscher, terapeuta; la Plath la vedeva di nascosto dal marito, ndr] Ho portato allo scoperto sofferenze che mi hanno fatto piangere. Perché piango solo con lei? Sto vivendo una reazione dolorosa alla [perdita dell'] affetto di mamma [...]. E allora, che cosa mi aspetto dall’amore? Provo quello che mi aspetto quando vedo R. B.? È per quello che piango? Perché perfino la sua cortesia professionale mi colpisce in quanto più vicina a ciò che desidero di quanto non lo sia quello che mi dà mia madre? Ho perso prematuramente un padre e il suo amore; sono arrabbiata con lei per questo e percepisco che secondo lei l’ho ucciso io (il suo sogno in cui io ero una ballerina di fila e lui prendeva la macchina e affogava). Ho sognato spesso di perderla e questi incubi infantili sono resistenti: l’altra notte ho sognato che inseguivo Ted in un enorme ospedale, sapendo che era con un’altra, entravo nella corsia dei matti e lo cercavo dappertutto. Cosa ti fa pensare che fosse Ted? Aveva la sua faccia, ma era mia madre, mio padre. In certi momenti lo identifico con mio padre, e quei momenti assumono una grande importanza: ad esempio, nella lite alla fine dell’anno accademico, quando in un giorno tanto speciale non l’ho trovato lì ad aspettarmi, ma con un’altra. Ho avuto un accesso di rabbia furibonda. Sapeva quanto lo amo e come mi sentivo, ma non era lì. Questo non ha forse a che vedere con quello che penso mi abbia fatto mio padre? Ho idea di sì. Il motivo per cui non ne ho discusso con Ted è che la cosa non si è ripetuta né rientra nelle sue abitudini: se così non fosse mi sentirei tradita nella fiducia che gli porto. È stato un incidente che ha fatto solo emergere qualche eco e non l’allontanamento definitivo di mio padre, che mi ha abbandonata per sempre. Domanda: perché non ne ho parlato in seguito? La mia è un’interpretazione plausibile? Se fosse venuta fuori da allora, adesso andrebbe ad aggiungersi al fermento di incidenti e paure del genere. Ted è un sostituto di mio padre in quanto presenza maschile e solo per questo. L’idea dei suoi tradimenti con altre donne è un’eco della mia paura del rapporto di mio padre con mia madre e con Madama Morte. Tutto questo mi affascina. Ma perché non riesco a controllarlo e a manipolarlo abbandonando lo scudo dell’attenta patina protettiva della mia superficialità? Stamattina, dopo che Ted era uscito per andare in biblioteca, ho letto Dolore e malinconia di Freud. Una registrazione quasi fedele dei sentimenti e delle ragioni del mio suicidio: lo spostamento nei confronti di me stessa dell’impulso omicida verso mia madre; la metafora del “vampiro che dissangua l’ego”, usata da Freud. È proprio la sensazione di intralcio che provo io quando mi metto a scrivere: le grinfie di mia madre. Maschero la mia autoumiliazione (spostamento dell’odio per lei) e la intreccio con le mie vere insoddisfazioni personali, al punto che diventa molto difficile distinguere tra la critica fittizia e quella che è davvero una tendenza da modificare. Per liberarmi dalla depressione magari potrei rifiutarmi di credere che lei abbia alcun potere su di me, come si fa con le vecchie streghe per cui si lasciano fuori piatti di latte e miele. Facile a dirsi. Come metterlo in pratica? Parlando, diventando consapevole di ogni cosa e studiandola per trarne giovamento. Dr. B.: Quest’anno stai cercando di fare due cose incompatibili tra loro: 1) indispettire tua madre; 2) scrivere. Per far dispetto a tua madre non scrivi perché ti sembra di dover consegnare a lei i tuoi racconti, o che sarà lei comunque ad appropriarsene. (Come avevo paura che mi stesse intorno per appropriarsi del bambino, perché non volevo che fosse suo). Così non riesco a scrivere. E la detesto perché questa mia improduttività gioca a suo favore e mi persuade che ha ragione lei, che sono stata scema a non insegnare, o a fare qualcosa di stabile, visto che ho rinunciato alla mia serenità per qualcosa che non esiste. La mia paura di venir rifiutata è legata alla paura che lei possa rifiutarmi per il mio insuccesso: forse è per questo che ogni no mi sembra terribile. Mi salva il fatto che a Ted non importa niente dei rifiuti fintanto che non turbano me. Così il mio lavoro sta nel divertirmi con il mio lavoro e nel sentire CHE LE MIE OPERE SONO MIE. Lei potrà pure usarle, tappezzarci tutta la stanza una volta pubblicate, ma sono roba mia, che non la riguarda. Non è che io non voglia riuscire. Certo che voglio. Ma non cerco il successo con la stessa disperazione di prima, che era la paura istillata che un insuccesso significasse la disapprovazione di mamma: ai miei occhi la sua approvazione e il suo affetto sono la stessa cosa, che sia vero o no. [...] CHE COSA MI ASPETTO DAL SUO “AMORE”? CHE COS’È CHE NON MI DÀ E CHE MI FA PIANGERE? Penso di avere sempre creduto che mi usasse come una sua estensione; che ogni mio tentativo di suicidio per lei sia stato un’”onta”, un’accusa: e ovviamente era vero. Un’accusa di poco amore. La sensazione poi, di competere con Warren [il fratello minore, ndr]: l’immagine incombente di Harvard fa capo a lui. A proposito, come ha interpretato mia madre il mio suicidio? Come il risultato del mio non scrivere, ovvio. Sentivo di non poter scrivere perché lei se ne sarebbe impadronita. Tutto qui? Sentivo che se non avessi scritto nessuno mi avrebbe riconosciuta come essere umano. La scrittura, allora, era la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo. E molto di più: un modo di ordinare e riordinare il caos dell’esperienza. Quando smetterò di credere alle streghe sarò in grado di parlare della scrittura senza esitare, sentendola comunque mia. Lei… Non è una strega. [...] Questo nostro desiderio di investigare sulla psicologia non è forse il desiderio di capire il potere della Dr. B. per maneggiarlo noi stesse? Un potere entusiasmante, utile. “Non sei più la stessa, dopo. È un vaso di Pandora: non c’è più niente di semplice”. LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA. Ci siano o non ci siano in essa elementi volti a ottenere la sua approvazione, non devo più usarla per questo. Non mi devo aspettare il suo amore da questo. [...] Sono io che devo cambiare, non lei. Perché raccontarle un successo è così deludente? Perché un solo successo non è abbastanza. Quando ami è come se avessi un contratto a termine. Approvi per atti isolati. E l’approvazione è a breve scadenza. Il punto è: bene, l’abbiamo capito, ma adesso che succederà? DI CHE COSA MI SENTO COLPEVOLE? Di avere un uomo, di essere felice… [...] Una delle ragioni per cui sono riuscita a intrattenere una piacevole corrispondenza con lei quando ero in Inghilterra, era che entrambe potevamo verbalizzare le nostre rispettive immagini ideali, mettendole in relazione: con partecipazione e amore sincero, senza sentire la corrente emotiva in contrasto con i sentimenti espressi a parole. Avverto la sua disapprovazione. Ma mi arriva da paesi lontani [...]. Vorrei… essere sicura di quello che sono; in tal modo saprei che i miei sentimenti, anche quelli che assomigliano ai suoi, sono proprio miei. Ora come ora mi è difficile distinguere tra realtà e apparenza [...] Il motivo per cui sembra che tutti a Harvard mi rimproverino facendomi ingelosire sta nel fatto che li identifico con Warren? Come darci un taglio. PROBLEMA: uno stesso atto può essere positivo o meno a seconda del contenuto emotivo. Come il coito. Come fare regali. Come scegliere un lavoro. QUAL È LA COSA PIÙ SENSATA DA FARE CON [L'OSTILITÀ] VERSO MIA MADRE? Il bisogno di esprimerla si riduce con il maturare della consapevolezza? [...] Tutto l’odio svanisce?… Ted e io siamo introversi e abbiamo bisogno di uno stimolo esterno come il lavoro per stabilire un contatto profondo con gli altri: anche il contatto superficiale ma piacevole delle due chiacchiere… La scrittura come professione rende introspettivi: noi non facciamo sorrisi, critiche, ricerche indipendenti. La poesia è l’arte creativa più introiettata e intensa. Porta pochi soldi, e su quei pochi non si spera. L’insegnamento è un’altra distorsione: seleziona un tema astratto, un tema che tratti “la realtà spirituale e materiale”, lo suddivide in corsi, semplifica il diluvio letterario in scansioni cronologiche, tematiche, stilistiche. Dà un ordine a un pezzettino di tutto questo e lo ripete per vent’anni. La psicologia, suppongo, fornisce situazioni più reali: quelli con cui hai a che fare sono turbati da una quantità di cose, persone e idee, altro che il simbolismo di Joyce. Hanno compiti diversi: sono diverse le cose che giovano loro. Non sostengono l’Esame di Vita tutti insieme nella stessa aula; ognuno è a sé stante. Non esiste un criterio generale di valutazione. Hanno problemi comuni ma non precisamente uguali. Il che implica un ampliamento della consapevolezza dell’altro. Qualunque cosa faccia Ted, io vorrei fare questo. Richiederebbe sicuramente una lunga dedizione. Ma non mi ci dedicherò se non mi sarò persuasa a scrivere, scrivere per mio diletto, per offrire anche agli altri le mie intuizioni e per imparare le tecniche. Ieri Ted e io abbiamo parlato di lavori. A modo suo è patologico quanto me: compulsivo nei confronti della società, al punto che “la ricerca di un lavoro” per lui si trasforma in una specie di condanna da scontare. Adesso dice che il suo lavoro a Cambridge è stato un’esperienza ricca, mentre allora la considerava mortale. Sarei felice se trovasse qualcosa che gli piace. Che c’è di terribile in uno stipendio fisso? Ammette che è rassicurante. A spaventarlo è l’Idea: i morti di lavoro fisso sono tanti, perché allora non dovrebbe morirne anche lui? Se la sua scrittura si consolidasse entro l’anno, non penso che il lavoro lo ucciderebbe. Ma, come me, non vuole un impiego da intraprendere senza un minimo di preparazione; meglio qualcosa che abbia a che fare con la scrittura. Abbiamo deciso di dedicare il venerdì pomeriggio a fare il punto su tutti i problemi, ma non solo, anche sulle soddisfazioni: elencando le cose belle della settimana. Progettando quelle della prossima… Abbiamo letto Re Lear per un’ora davanti a un tè. Io ho letto quattro drammi di Ionesco: La cantatrice calva, Jack, La lezione, Le sedie, terribili e divertenti: giocano con le nostre vecchie convenzioni e banalità portandole all’estremo per mostrare, attraverso la discrepanza tra vero e vero-fino-in-fondo, quanto siamo ridicoli e a che punto siamo arrivati. “Mangiamo bene perché viviamo alla periferia di Londra e ci chiamiamo Smith”. Una crisi di famiglia: un ragazzo non vuole sottomettersi e dire che adora le frittelle di patate a tocchetti; la piccolezza del caso in contrasto con la totalità dell’emozione coinvolta da ogni parte; il ridicolo, il terrore. Adesso non devo fare altro che cominciare a scrivere senza pensare di farlo per mia madre, per conquistare il suo affetto! Come: dov’è la mia pura motivazione? Ted non dovrà uscire di scena nel momento in cui mi sentirò sicura di non usare anche la sua scrittura per ottenere consensi e certa di non essere lui ma me stessa. Motivo per cui voglio che sia R. B. a parlare per prima? Desiderio di non dovermi assumere la responsabilità dell’analisi? Voglio fare delle domande, sì: è il mio compito e lavorarci sopra mi è utile. Pace infinita oggi, dopo aver parlato con lei, dando voce al dolore profondo: avrà mai fine? Lunedì 9 marzo. Dopo una lugubre seduta con R. B., decisamente sollevata. Bel tempo, belle notizie. Se non smetterò di piangere mi farà legare. Sul tram una buona idea per una poesia grazie alla mia faccia devastata; dal titolo “The Ravaged Face”, appunto. Anche un verso mi è venuto. L’ho scritto e poi altri cinque per una sestina. Ho scritto i primi otto versi al ritorno da un bel pomeriggio a Winthrop, ieri. Mi piace parecchio – ha la franchezza di “Suicide Off Egg Rock”. Ho anche finito un’imitazione in pentametri giambici romantici delle poesie di Roethke su Yeats, in stile “New Yorker”. Piuttosto debole, non penso vada bene per il libro, ma la manderò alla rivista per sentire che ne pensano. Una giornata tersa, chiara e azzurra a Winthrop. Sono andata sulla tomba di mio padre, una visita deprimente. Tre camposanti separati da strade, tutte costruite negli ultimi cinquant’anni o giù di lì; brutti, crudi blocchi di pietre, lapidi attaccate, come se i morti riposassero testa contro testa in un dormitorio… Nel terzo campo, su uno spiazzo erboso uniforme che guardava da un rettilineo giallastro spoglio su file di edifici di legno, ho trovato la piatta tomba di “Otto E. Plath: 1885-1940″, proprio accanto al sentiero, dove era facile calpestarla. Mi sono sentita ingannata. Ero tentata di tirarlo fuori. Per provare che era vissuto e morto sul serio. Chissà in che stato di decomposizione era? Niente alberi né pace, la sua lapide schiacciata contro il corpo dall’altra parte. Me ne sono andata subito. Ma è giusto avere il posto in mente… Il mio desiderio di una carriera al di là della scrittura. Che non può essere l’unica cosa, è troppo spesso arida. Mi piacerebbe studiare letterature comparate. Nella mia temerarietà folle, sono affascinata dal rigore di un dottorato, o anche dalla cura di servizi o recensioni per un settimanale. Devo sfruttare il cervello lì fuori, non solo a casa per le cose personali. Grandi crampi, agitazione. Devo avere il ciclo, ma ho anche attacchi di nausea. Sarò incinta? Per un po’ mi creerebbe scompiglio nel campo del lavoro, credo. Se solo arrivassi al romanzo, o almeno ai racconti per il “Ladies’ Home Journal”. Magari qualche bella poesia sulla maternità, se scopro che aspetto davvero. Sabato 20 giugno. Tutto è sterile. Io sono parte delle ceneri del mondo, qualcosa da cui niente può germogliare, niente può fiorire né portare frutto. Per esprimermi nello squisito gergo medico del ventesimo secolo, non riesco a ovulare. O non ovulo e basta. Niente questo mese, né quello passato. Per dieci anni ho avuto i crampi inutilmente. Ho lavorato, versato sangue, sbattuto la testa contro il muro per arrivare dove sono adesso. Con l’unico uomo al mondo che mi va a pennello, l’unico che potessi amare. Farei figli fino alla menopausa, se fosse possibile. Voglio una casa piena di bambini nostri, animali, fiori, verdura e frutti. Voglio essere una Madre Terra nel senso più ricco e profondo. Ho smesso di fare l’intellettuale, la donna in carriera: è tutta cenere per me. E che cosa mi ritrovo dentro? Cenere. Cenere su cenere. Entrerò nell’orribile ciclo clinico del sesso programmato, con le corse a farmi le analisi dopo il mestruo, dopo un rapporto. A fare iniezioni di questo e quello, ormoni, tiroide, diventando un’altra, sintetica. Il mio corpo una provetta. “Mia cara, le persone che non riescono a concepire in sei mesi hanno qualche problema” dice il dottore. Tira fuori il bastoncino con la punta di cotone della mia cervice e lo passa all’infermiera: “Più nero del nero”. Se avessi ovulato sarebbe verde. Lo stesso test, ironia, con cui si diagnostica il diabete. Verde, colore di vita, uova, fluidi zuccherini. “Ha scoperto il mio giorno preciso di ovulazione” mi dice l’infermiera. “È un test fantastico, per niente caro, facile”. Ha. Di colpo le fondamenta del mio essere si corrodono. Arrivo, con grande sforzo e dolore, a concentrare i miei desideri, le emozioni e i pensieri su ciò intorno a cui si concentrano quelli di una donna normale, e che cosa trovo? Sterilità. Di colpo tutto è inquietante, cronico, mortale. Se non riuscirò ad avere figli – e come, non ovulando? – in che modo mi faranno ovulare? – ne morirò. Morirò nel mio corpo di donna. Morirà il sesso, un punto morto. Il mio piacere, nessun piacere, una beffa. La scrittura un sostituto vuoto e decadente della vita vera, dei veri sentimenti, invece di un piacevole extra, di un compenso che fiorisce e dà frutti. Ted dovrebbe essere un patriarca. Io una madre. Del tutto bloccato il mio amore per lui, l’espressione del nostro amore, di noi due attraverso il mio corpo, le porte del mio corpo. Dire che sono esageratamente pessimista per questo è come dire che ogni donna dovrebbe affrontare la mancanza di ovulazione con un sorriso sprezzante. O con “senso dell’umorismo”. Ah, ah, davvero. Il postino non si vede. Un bellissimo mattino limpido. Non ho fatto che piangere. Ieri notte, oggi. Come posso tenere Ted legato a una donna sterile? Sterile, sterile. La sua ultima poesia, che dà il titolo alla raccolta, è un rito di fertilità per una donna sterile: “Cacciata dalla catena dei vivi, il Passato ucciso in lei, il Futuro strappato via”. “Tocca questa raggelata”. Mio Dio. E il suo libro per bambini ieri, nello stesso giorno in cui sono andata dal dottore, ha ricevuto una lettera di apprezzamento da T. S. Eliot. Meet My Folks! E non un figlio, neanche l’ombra della speranza di uno, a cui dedicarlo. E il mio Bed Book non ancora accettato, ma lo sarà, che la rannuvolata Mcleod lo respinga o meno, e io che lo dedico ai gemelli adottivi di Marty. Mio dio. Questo proprio non lo mando giù. È peggio di una malattia terribile. Esther avrà pure la sclerosi multipla, ma è madre… (Traduzione di Simona Fefè) Vita di Anne Quello stesso inverno [1959, ndr], un’altra donna cominciò a frequentare il seminario di scrittura di Lowell alla Boston University: Sylvia Plath. Quando, ventiseienne, si trasferì a Boston con il marito, il poeta inglese Ted Hughes, venne introdotta negli ambienti letterari di Boston e di Cambridge come moglie di Hughes “anche lei scrittrice”; all’età di ventinove anni, Hughes aveva consolidato la propria fama con un libro che aveva vinto un premio letterario, Lo sparviero nella pioggia. La Plath aveva appena completato un anno di insegnamento allo Smith College; durante questo periodo aveva sperato di poter finire un romanzo e un libro di poesie e di avere un figlio l’anno seguente. Scandiva i propri desideri in base alle tappe raggiunte da Virginia Woolf. “Farò meglio di lei”, si ripromise la Plath nel proprio diario, “Niente figli finché non ci sarò riuscita”. Per assolvere a questi impegni, si impose una rigida disciplina di scrittura, lettura e studio del tedesco, ma dopo quattro mesi di vita a Boston cominciò a sentirsi terribilmente limitata. In ottobre fu assunta nell’ufficio documentazione della clinica psichiatrica del Massachusetts General Hospital, e a metà dicembre riprese a fare la psicoterapia; nel febbraio del 1959 iniziò a frequentare il seminario di poesia di Lowell. La Plath, in precedenza, non aveva fatto molto caso al lavoro di Lowell; i suoi gusti si erano formati in modo tradizionale; una laurea in letteratura inglese allo Smith College e una borsa di studio alla Cambridge University in Inghilterra. Nel suo diario, al giorno 5 maggio 1958, si legge che aveva dato una sbirciata alle poesie di Lowell la sera prima che lui tenesse una lezione al college; le sue frasi “dure e impertinenti, traboccanti di impeto e di colore” le suscitarono “eccitazione, gioia, ammirazione, curiosità di incontrarlo e di fargli i suoi complimenti”. In un momento di esuberanza, si mise delle calze di seta rossa e andò al suo reading. Quando l’anno successivo decise di frequentare il corso di Lowell, per lei rappresentava (come il lavoro in ospedale) un modo per dare alla sua giornata “una struttura oggettiva” e per dissipare parte dell’orrore del confronto nevrotico con se stessa. La Plath disprezzava quella che chiamava la sua “pigrizia”: “il fatto di non lavorare per un Ph. D. o su un terzo libro come A.C.R. [Adrienne Cecile Rich, un'altra giovane poetessa di Boston] o avere quattro figli e una professione”. La Plath sentiva che quelle ambizioni erano ridicole, ma nondimeno analizzava i suoi rivali locali per calcolare le sue chance di successo. Teneva sotto particolare osservazione le donne, con un atteggiamento che descriveva come “la malizia abbastanza giustificata di chi ha scritto poesie migliori di quelle che hanno creato la reputazione delle altre donne”. Come Lowell, la Plath aveva una lista di grandi poeti preferiti, e ogni tanto, specialmente dopo un periodo di frenetica attività creativa, si premiava trovando per se stessa una propria posizione in quella lista. “Senza alcuna modestia, penso di avere scritto versi che mi qualificano come la Poetessa d’America (così come Ted sarà il Poeta d’Inghilterra e delle sue colonie). Quali sono i miei rivali? Bè, nella storia Saffo, Elizabeth Barrett Browning, Christina Rossetti, Amy Lowell, Emily Dickinson, Edna Saint Vincent Millay – tutte morte. Ai nostri giorni: Edith Sitwell e Marianne Moore, vecchie glorie ormai passate di moda, mentre la madrina della poesia, Phyllis McGinley, è fuori gioco – poesia banale la sua: si è svenduta. Temibili semmai sono: May Swenson, Isabella Gardner, e la più vicina, Adrienne Cecile Rich – che verrà presto eclissata da queste mie otto poesie”. La Plath senza dubbio si aspettava di acquisire dal seminario di Lowell un po’ più di visibilità, poiché sapeva che una sua parola buona avrebbe aiutato molto la sua carriera. In quell’inverno e nella successiva primavera scrisse una dozzina di poesie che infine pubblicò nel suo primo libro, Il colosso (1960). Già alcune di queste (“La spina nell’occhio”, “Point Shirley”, “Elettra sul sentiero dell’azalea”) anticipano la forza delle poesie che scrisse in Inghilterra fra il 1961 e il suo suicidio avvenuto nel 1963, e che divennero giustamente famose. Nel 1959, tuttavia, non fu la poetica della Plath, ma le sue conoscenze letterarie che colpirono i suoi compagni di corso: la scelta di Wallace Stevens come “poeta favorito”, la sua capacità di acquisire sempre un vantaggio su tutti, a parte Lowell, con abili osservazioni sul manierismo in poesia. (“Mi ricorda Empson”, borbottava. “Mi ricorda Herbert. Forse la prima Marianne Moore?”). Ma anche la Plath definì il seminario di Lowell come uno stimolo per acquisire una miglior comprensione della propria poesia, in parte attraverso l’esempio di Studi dal vero e in parte attraverso quello di Anne Sexton. Quello che era stato motivo di discussione tra Lowell e la Sexton, cioè l’uso di “soggetti assolutamente personali e tabù”, come l’esaurimento nervoso, la influenzò moltissimo, come disse in seguito a un intervistatore: “Penso in particolare alla poetessa Anne Sexton, che scrive anche delle proprie esperienze di madre, una madre che ha avuto un crollo nervoso, una donna estremamente emotiva e che si sente giovane. Le sue poesie sono straordinariamente artistiche e, tuttavia, hanno una profondità psicologica ed emotiva che io penso sia qualcosa di piuttosto nuovo ed entusiasmante”. L’ammirazione sincera che la Plath provava per la Sexton aumentò gradualmente quell’inverno. I partecipanti al corso erano troppo concentrati sull’insegnamento di Lowell per prestare attenzione gli uni agli altri. Quando una delle studentesse del corso, Kathleen Spivack, in seguito incontrò Roger Rosenblatt, l’allora direttore del National Endowment for the Humanities si resero conto che erano stati seduti l’uno di fronte all’altra per un anno senza mai presentarsi, ma “otto anni dopo ci ricordavamo ancora delle nostre reciproche poesie e dei terribili commenti che venivano fatti su di esse”. “Gravitavamo in silenzio intorno alla lezione” ha ricordato la Sexton “lasciandoci andare al nostro flusso poetico, sia che avesse per soggetto un macellaio che un amante. Si andava in questo modo. Stavamo silenziosi, a stretto contatto con il padre”. La Sexton e la Plath iniziarono ad accorgersi l’una dell’altra quando “il padre” prese a fare dei paragoni fra loro, poco dopo che la Sexton aveva letto “La doppia immagine”. Lowell pensò che potessero “darsi una mano a vicenda” poiché “Anne era più se stessa ed aveva meno cultura”, ricordò dopo. “Sylvia imparò da Anne”. Per esempio, la poesia della Sexton “Amica mia, amica mia”, che fu quasi sicuramente commentata durante le lezioni, sembra aver offerto alla Plath le rime e il tema per una delle sue poesie più famose, “Papà”. L’iniziativa di Lowell stimolò una riflessione della Plath, come risulta dal suo diario. Con la psicoterapia, stava cercando di chiarire i propri complessi sentimenti verso il padre, alla cui tomba fece visita il 9 marzo, il giorno prima della morte della madre della Sexton e la settimana dopo la lettura della “Doppia immagine” al corso. In quel periodo stava anche cercando di rimanere incinta. Il diario si apre con una triste annotazione sul ciclo mestruale che le segnalava un altro tentativo fallito, quindi continua facendo riflessioni disperate sul suo affannarsi per capire meglio la psicoterapia e la poesia: “Piango per tutto. Soltanto per fare dispetto a me stessa e per mettermi in difficoltà. Ho finito due poesie, una lunga, “Elettra sul sentiero dell’azalea” e “Metafore per una donna incinta”, nove versi ironici, di nove sillabe ciascuno. Non sono mai perfetti, ma penso di essere brava. Le critiche a quattro delle mie poesie al corso di Lowell: retoriche. Mi paragona ad Anne Sexton, un onore, immagino. Bene, si vedrà. Scrive delle cose molto buone, e migliorano sempre di più, tuttavia c’è anche tanta roba che non vale niente. Vorrei farmi un taglio di capelli che mi renda attraente invece di portare questa coda da topo. Sicuramente mi farò, come al solito, un taglio da maschiaccio. Sono i soldi che mi trattengono? Devo rimettermi in sesto”. “Regredisco terribilmente”, commenta. “Forse ho dentro di me tutte le risposte alle mie domande, ma ho bisogno di un catalizzatore che le porti allo stato di coscienza”. Tuttavia, ciò che non riusciva ad affiorare lavorava con profitto nell’inconscio: “Elettra sul sentiero dell’azalea” porta la ricerca del padre all’interno di una bella narrazione, mentre una sorta di magico pensiero primitivo forma l’enigma sulla fertilità di “Metafore per una donna incinta”. L’inconscio si compiace anche nella soddisfazione della Plath di essere paragonata alla Sexton. Le associazioni scorrono lungo un asse sommerso, un’identificazione nella Sexton come poetessa che entra direttamente in conflitto con i temi che la Plath eludeva durante la terapia: la Sexton come figlia di una madre dominante, la Sexton come madre, la Sexton come poetessa che Lowell ammira, la Sexton come donna sempre “a posto” e ben pettinata. Nei primi giorni di aprile, la loro amicizia sbocciò. La Sexton di solito rimaneva a Boston per varie ore dopo il corso, poiché aveva appuntamento alle sette con il suo psicanalista. Lei e la Plath presero ad andare a bere qualcosa insieme dopo la lezione. Qualche volta le accompagnava anche George Starbuck, che ogni tanto si ritagliava un po’ di tempo libero dal suo lavoro di co-direttore della Houghton Mifflin per andare al seminario. Starbuck scriveva poesie brillanti e allegramente complicate; la sua esuberanza adolescenziale lo rendeva un po’ anomalo all’interno del sobrio gruppo dei partecipanti alle lezioni di Lowell, che invece avevano tutti un “atteggiamento molto accademico”. Alla Sexton e alla Plath piaceva il suo humour tagliente. “Ci accatastavano sul sedile della mia vecchia Ford”, ricordò Anne. “E io guidavo freneticamente nel traffico fino al Ritz o dintorni. Quindi parcheggiavo in divieto di sosta in una delle AREE PER SOLO CARICO e dicevo loro, con una battuta: “Va bene qui, visto che anche noi stiamo andando a fare un carico!” Eccoci, dunque, tutt’e due aggrappate a un braccio di George, entrare nel Ritz e ordinare due, tre, quattro martini a testa. George ci ha anche scritto un verso nel suo primo libro di poesie, Pensieri d’osso: “Esco barcollando fuori dal Ritz sotto braccio a due belle signore [...]“. Spesso, molto spesso, Sylvia ed io riparlavamo dei nostri primi tentativi di suicidio; molto, in dettaglio e in profondità fra una patatina fritta e un’altra, Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla luce elettrica. Aspirandola”. “Praticamente mi sentivo come un cavalier servente”, ricordò George Starbuck; “facevo da scorta a quelle due loquaci ragazze mentre prendevano i loro drink al Ritz. Non martini: Anne a quel tempo beveva dei cocktail particolari, gli “stingers” – una roba orribile – non ricordo, invece, cosa bevesse Sylvia. Facevano delle conversazioni assurde in cui mettevano a confronto i loro suicidi e parlavano dei loro psicanalisti. Solo poche volte ho avuto il privilegio di ascoltare i loro discorsi”. Ricordò anche la riservatezza della Plath: “Assumeva un atteggiamento un po’ affettato”. Anne, al contrario, dava “descrizioni colorite dei suoi ricordi dell’ospedale psichiatrico e dei suicidi e di cose del genere. Senza esagerazioni; infatti, aveva un senso del comico all’americana; autodenigratorio, umoristico a proprie spese. Sylvia era più obiettiva, tanto che non mi passò per la mente che gli episodi da lei vissuti fossero così drammatici come risulta dai suoi scritti. Era scherzosa, ma non colorita. I suoi diari mostrano che era preoccupata di me, una cosa strana. Ma tutti a quell’età pensano che siano gli altri “i leoni”". Starbuck infatti era un po’ un leone: uno di quelli che sceglievano e decidevano la pubblicazione dei manoscritti di poesia; la Plath sapeva che lui aveva fatto pressione alla Houghton Mifflin per pubblicare il libro della Sexton. Ma aveva anche capito che la Sexton e Starbuck stavano per divenire amanti, come si può ricavare da molte annotazioni scritte sul suo diario per diverse settimane. Forse anche lei aveva flirtato con Starbuck; era parte del loro mondo: “i poeti sono sempre innamorati”. La vita della Sexton, ogni martedì, suggeriva alla perfidia parodica della Plath la trama di una o due storie da riviste femminili: seminario con un famoso poeta, martini al Ritz, amore nel pomeriggio, e un appuntamento con lo psicanalista alla sera. La Plath sovraccaricò un po’ la situazione: “Dovrei consegnare [un volume di poesie] alla Houghton Mifflin questa settimana. Ma A. S. è già lì prima di me, con il suo amante G. S. che tesse sul “New Yorker” gli elogi di lei e della loro coppia: ho capito che tutti i pomeriggi che abbiamo passato a prendere tripli martini al Ritz stavano per finire. Quel memorabile pomeriggio nella misera stanza monastica di G. a Pinckney disse: “Non avresti dovuto lasciarci soli”: perché mentire? Me ne andai, tuttavia mi sentii come un insetto dalle ali marroni attirata da una flebile fiamma. È tutto. Come direbbe Snodgrass”. Pensò con un certo entusiasmo di scrivere di quella relazione in una “doppia storia, “August Lighthill e l’Altra donna”… Ecco l’orrore, e con tutti i particolari. Prima fai zampillare la vita nei racconti, e poi verrà fuori il romanzo”. Ne abbozzò la trama nel diario: “Una donna insofferente (ovviamente si tratta di me) dice maliziosamente alla moglie di un uomo che suo marito ha una relazione con “Anne”, ma poi viene a sapere che è lui ad avere una relazione con lei. Diventa una brutta storia di intrecci di corpi. GLI OLIMPICI. Poveri poeti sposati al bar del Ritz”. [...] Il 12 febbraio 1963 i giornali americani riportarono brevemente la notizia che la poetessa Sylvia Plath era morta a Londra. Per Boston era una notizia di cronaca locale che scosse fortemente tutto l’ambiente poetico. Sebbene in un primo tempo la sua morte fosse stata attribuita ad una polmonite, alcuni si chiesero se invece non si fosse trattato di suicidio, e in effetti era così: la Plath era morta di asfissia, infilando la testa nel forno a gas. Alcuni avevano sentito dire che Ted Hughes aveva un’altra donna, e molti videro in quel suicidio una vendetta tutta femminile, patetica e agghiacciante come una tragedia greca. Per coloro che conoscevano gli scritti più recenti della Plath lo shock fu ancora più grande perché vennero a sapere che da poco aveva preso coscienza di essere una poetessa di straordinario talento. La Sexton si sentì scossa nell’intimo, poiché le rare ma affettuose lettere ricevute dalla Plath sprizzavano felicità: “Sono in campagna con Frieda [la figlia] e un bimbo molto bello di sei mesi, Nicholas, allevo api e coltivo patate e ogni tanto faccio trasmissioni per la BBC”. Nel 1963, la Plath sembrava aver pienamente realizzato il desiderio che aveva confidato alla Sexton esattamente quattro anni prima, mentre erano a bere al Ritz dopo il seminario di Lowell: costruirsi in Inghilterra una vita che riunisse la maternità, la vita domestica e la carriera di scrittrice. Per soddisfare queste ambizioni sarebbe stato necessario a chiunque un ottimo equilibrio, e la Plath, in particolare, avrebbe innanzitutto dovuto guarire da una forte attrazione – che la Sexton chiamava “brama” – per il suicidio. La notizia della sua morte fece riaffiorare in Anne il ricordo delle loro conversazioni di anni prima, che rievocò in una poesia intitolata “La morte di Sylvia” e che dopo ampliò in una commemorazione. Man mano che arrivavano altre notizie da Oltreoceano, il senso d’identificazione della Sexton diventava sempre più profondo. Immaginava l’amica sola e abbandonata, che lottava per mantenere vivo quel personaggio vivace e pieno di brio che tutti a Boston conoscevano così bene. Quando il pastore della chiesa unitariana di Wellesley la chiamò e le chiese di aiutarlo a organizzare una cerimonia commemorativa per la Plath, fu contenta di collaborare alla scelta delle poesie da leggere, anche se si rese conto, come disse al dottor Orne [il suo analista, ndr], che lei ed il pastore non erano molto d’accordo riguardo alla persona che stavano commemorando. “Iniziai a pensare a come avrebbe dovuto svolgersi il suo funerale. Suo marito aveva un’altra: perché Sylvia non era tornata a casa? Poi mi resi conto che invece era tornata a casa. Lo spiegai al pastore ma non credo ne fosse molto convinto. Malgrado fosse un tipo molto orientato verso la psicanalisi, gli dissi che doveva capire che io consideravo tutta quella faccenda da un punto di vista malato. Perché non era tornata a stare dalla madre? Bè, era già tornata una volta dalla madre [quando aveva sposato Hughes ed erano andati a vivere per due anni nel Massachusetts]. Non lo poteva fare di nuovo. Uccidendosi, lo aveva fatto. Pensai che questo non dovesse essere tralasciato nel celebrare il suo funerale – penso che sia un modo importante di morire”. La morte della Plath rattristò molto la Sexton, ma sollecitò anche il suo desiderio di morte, sempre latente. Il suicidio, rifletté, era come una droga: “La gente che si droga non sa dire perché lo fa, non c’è una ragione reale”, disse al dottor Orne, che obiettò: “C’è sempre una ragione: le droghe danno dipendenza”. “Anche il suicidio dà dipendenza”, ribattè la Sexton e, come disse ad un amico, Sylvia Plath “aveva il suicidio dentro, E anch’io. Per molti è così. Ma, se siamo fortunati, quel nostro istinto non prevale e qualcuno o qualcosa ci costringe a vivere”. In un momento in cui gli aspetti sani della personalità della Sexton si stavano rafforzando, grazie all’incontro e allo scambio con altre donne artiste del Radcliffe Institute, la sua carriera stava imboccando nuove strade e lei stava acquisendo consapevolezza del proprio potere di interprete di fronte a platee sempre più grandi, il suicidio della Plath la fece ricadere nella palude della vecchia e ritualizzata ossessione autodistruttiva. “La morte di Sylvia Plath mi disturba molto”, disse al dottor Orne. “La fa desiderare anche a me. Ha preso qualcosa che era mio, quella morte era la mia. Certo, era anche la sua. Ma tutt’e due avevamo giurato di smettere di desiderarla, allo stesso modo in cui si giura di smettere di fumare”. Questo atteggiamento competitivo entrò anche negli scritti che la Sexton fece sulla Plath. Il ritornello “io, anche io” dà a “Morte di Sylvia” un tono spurio, colmo di auto-commiserazione e di dolore fittizio, ma ad Anne piaceva molto quella poesia e la difendeva dagli attacchi dei critici. Howard Moss del “New Yorker” la stroncò. Robert Lowell scrisse che gli pareva “troppo dettata dal dolore”. Nell’inviare la poesia a George Starbuck, la Sexton disse: “È molto bella: se vuoi, la puoi attaccare al muro”. Alle critiche di Gallway Kinnell, rispose: “L’ho ascoltata [la poesia] e ho lasciato che prendesse la sua strada, con un po’ di difetti, forse sovraccaricandola un po’, ma è più rispondente a se stessa che a me”. Quando a luglio la Sexton ricevette finalmente la copia di La campana di vetro che aveva ordinato a marzo a una libreria di Londra, si mise a leggerla seduta e poi sdraiata sul divano che aveva ereditato dalla madre. Leggere il romanzo della Plath aggravò tremendamente il suo stato (e in modo cronico: vari anni dopo, quando vide Linda che lo leggeva con avidità disse “È robaccia!”). Scrisse al dottor Orne una lettera sulle emozioni che le aveva suscitato: la Plath aveva scritto della prosa, come ora stava facendo la Kumin con il romanzo Le condanne dell’amore, e come il dottore aveva incoraggiato anche lei a fare, ma la Plath era anche una poetessa – “una grande poetessa, con un grosso potenziale”. Aveva scritto un libro che aveva come tema il suicidio – un libro “molto commovente” con un finale positivo – e quindi si era uccisa. “Continuo a leggerlo… lo devo leggere e rileggere, così da ritornare alla sua morte”, disse la Sexton. Nella lettera, scritta sicuramente su quel divano verde pisello, a questo punto si intrecciano sentimenti confusi: a un senso di rivalità verso la Plath si mescola la rabbia di Anne verso Mary Gray per averla sempre ignorata; ora, inoltre, capisce che tutta la sua carriera di scrittrice si è basata su un’illusione, la “grande beffa” del transfert. “Ora capisco! Esistevo per significare qualcosa per te, per essere importante per te e per appartenerti. Ho inventato di sana pianta una persona, la poetessa Anne Sexton, perché valesse qualcosa per te [...]. Tutta questa gente che mi scrive e che crede in me. Mio Dio! Io nemmeno esisto!”. Questo era decisamente un sentimento che Anne conosceva bene, ma la morte della Plath lo fece riemergere con forza. All’attrazione per la morte come modo per tornare alla Madre, ricevendone finalmente l’attenzione, si aggiungeva l’attrazione per la morte come separazione definitiva della donna dalla poetessa, che l’avrebbe consegnata all’immortalità della parola. Già dal maggio del 1963, la Sexton cominciò a lavorare per la sua celebrità postuma, come disse al dottor Orne: “Ho pensato che scriverò un libro e lo metterò da parte, così sarà pubblicato dopo la mia morte”. Era come se Sylvia Plath, la sua intelligente rivale, si fosse impossessata del suo progetto di diventare famosa: aveva fantasticato un suicidio di grande risonanza pubblica. Con quel particolare gesto, la Plath aveva una volta per tutte rovesciato le loro posizioni di maggiore e minore nei ranghi della poesia

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