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giovedì 18 marzo 2010
Ted Hughes-Birthday Letters e altre poesie
17:13 |
Pubblicato da
rimmel |
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Una data, l’11 febbraio 1963, che reca con sé il mistero di una scelta, il desiderio di un cammino-vettore che, forse, nessuno avrebbe potuto cambiarne verso, e direzione…
“Verrà la fama. Fama per te, soprattuto.La fama è inevitabile. E quando arriverà
l’avrai pagata con la felicità,tuo marito e la vita”
E il soffio di uno spirito invocato da Ted sul quadrante dello ouija: sapeva, Sylvia, che i morti cantano le proprie litanie?
Segnali. Presagi
-Come il ricordo della zingara di Reims che, “respinta quasi prima che parlasse”, biascicò nella sua direzione – un dito alzato, occhi bile-livore quel “Vous crèverez bientôt” che Sylvia, intenta a scrivere cartoline, probabilmente ignorò, ma che ferì Hughes con il lampo di una maledizione che, per giorni, tentò di neutralizzare rimando vani “talismani di potere, in cynghanedd”.
-Come una lunga elegia frammentata, Lettere di compleanno, definito da molti un canzoniere moderno, ripercorre l’intreccio di più vite: “Alzo gli occhi come per incontrare la tua voce con tutto il suo incalzante futuro che mi è esploso addosso. Poi torno a guardare il libro delle parole stampate. Sei morta da dieci anni. È solo una storia. La tua storia. La mia storia”.
-E il tempo si accumula verso, dopo verso, rincorrendo brandelli di ricordi che sembrano sul punto di disperdersi, parole non dette, ancore di silenzi pesanti come croci.
-L’incontro con Sylvia, il matrimonio, i viaggi…lei eterna negli occhi di Nicholas, scolpita nei lineamenti di Frieda, l’ombra-cicatrice del primo, tentato, suicidio: “Eri argento massiccio rivestito d’oro con la punta di nichel. Traiettoria perfetta come attraverso l’etere. Persino la cicatrice sulla guancia, dove avevi probabilmente sfregato sul cemento, era la riga della canna che ti manteneva dritta sull’obiettivo”.
-L’obiettivo-fantasma che l’ha strappata dai vivi: “Il tuo Papà, il dio con la pistola fumante”…
“Non volevi essere come Cristo” scriverà Hughes, in un moto di accusa e biasimo “Volevi essere con tuo padre in qualunque luogo egli fosse. E il tuo corpo ti sbarrava il passaggio. E la tua famiglia che era carne e sangue tuo lo appesantiva. E un dio che non era tuo padre era un falso dio. Ma non volevi essere come Cristo”.
Il “colosso”, (Hughes come huge, enorme, immenso, come lo definirà la Plath dedicandogli la prima raccolta di versi, la sola pubblicata in vita, altare di un dio che non è più) che era la “salute” di Sylvia, si ammala rimpicciolendo la sua stazza, nelle pagine di un viaggio che, sente, privo di ritorno: pubblicate Lettere di compleanno, Ted è libero di andare.
Un Orfeo mancato e discinto, così, barcolla nella bellezza disperata di liriche estreme, comprime la sua voce in lacrime terse che la Poesia, incurante, divora…il cancello della Morte rimane socchiuso, alle spalle di lui.
Non ha un dolore da sconfiggere, Hughes, né pudori da difendere, solo le sfaccettature di “un prisma che rigiro di qua e di là. Di là vedo il velato barbaglio marino delle tue estasi, le tue visioni nel cristallo.Di qua la lampada irreparabilmente infranta nella mia cripta di sogno, tenebra totale, sotto la pietra della tua tomba”.
È la colpa di un amore che, forse, per sopravvivere a se stesso, non avrebbe dovuto essere tale: “Da soli avremmo potuto, l’uno o l’altra, incontrare una vita. Coppia siamese, suppuranti ciascuno una singolare infezione dell’anima per l’altro, ciascuno era il palo che infilzava l’altro. Faticosamente, in silenzio percorrevamo le strade, confermandoci l’un l’altro, resi storpi e ciechi dai sogni”.
Il silenzio si sfalda e quanti l’hanno voluto additare come il solo colpevole del suicidio di Sylvia vengono relegati nell’impressionante “I cani mangiano vostra madre”, quasi sigillo finale all’intera raccolta.
Lettere-visioni di un orfano di se stesso per l’altra che si rinnova nell’assenza violenta della propria scomparsa.
Poesie tratte da “Poesie di compleanno“
(Per Assia Wevill-Gutman)
L’AMANTE“
Jealousy can open the blood
(Sylvia Plath) Il suo corpo d’ariete mi lava e mi ingrassa.
Ha l’odore del sesso
il suo artiglio mi infilza la parte infetta del cuore.Addenta. Mi inghiotte boccone a boccone:
prima un dito, poi un occhio, la spalla
risucchia un’arteria, il muscolo dolce.Sua moglie è la lupa di Romolo e Remo,
il volo nuziale dell’ape regina.
Depone bambini grassi sulle rive dei fiumi;
è la grande madre terra – sempre pregna, pregna.
Ad ogni amore
io partorisco piccoli gnomi di pietra.
Ogni volta che amo impasto una nuova morte.
Non sono più vera
di un sogno che bagna il lenzuolo.Il fauno mi chiama.
Batte lo zoccolo sotto la luna.
Lo aspetto da sempre,
appesa ad un gancio nel retrobottega
Why are you so solemn?
Più alta
di quanto non saresti più stata.
Ondeggiavi così snella
che le tue lunghe, perfette gambe americane
sembravano salire su su su.
Quella mano divampante,
quelle lunghe dita danzanti,
di eleganza scimmiesca.
E il viso: una palla tesa di gioia.
Ti vedo là, più chiara, più vera
che in tutti gli anni nella sua ombra -
come se ti avessi visto quell’ unica volta e poi più.
La cascata sciolta dei capelli
quella molle cortina
sul viso, sulla cicatrice.
E il tuo viso
una gommosa palla di gioia
intorno alla bocca dalle labbra africane, ridente,
dipinte di cremisi.
E i tuoi occhi
strizzati nel viso, succo di diamanti,
incredibilmente luminosi,
come succo di lacrime
che potevano anche essere lacrime di gioia,
una spremuta di gioia.
Volevi strabiliarmi
con il tuo brio
COME UN ORFEO MANCATO
Se fossi stato appeso in spirito
A un uncino sotto il muscolo del collo.
Precipitati dalla vita
Facevamo un silenzio profondo, noi tre,
Ciascuno nel suo letto. Ci confortarono i lupi.
Sotto quella luna di febbraio e la luna di marzo
Lo Zoo si era avvicinato.
E a dispetto della città
I lupi ci consolarono. Due e tre volte per notte
Per lunghi minuti
Cantavano. Avevano scoperto il nostro rifugio.
E i dingo, e i lupi dalla criniera brasiliana-
Tutti levavano la voce insieme
Col grigio branco del nord. I lupi ci sollevarono nelle loro voci lunghe.
Ci avvolsero e irretirono
Nel lamento per te, nel compianto per noi,
Ci tramarono nelle loro voci. Giacevano nella tua morte,
Nella neve caduta, sotto la neve che cadeva. E intanto il mio corpo affondava nella leggenda
In cui i lupi cantano nella foresta
Per due bambini trasformati nel sonno
In orfani
Accanto al cadavere della madre”.
MARIONETTE
“Vede, Signora,
io sua figlia l’ho sempre amata.
Arrivavo ogni mattina con in tasca
pesci vivi, oroscopi e poesie.Ma la sua bambina aveva nel corpo
lune insanguinate,
l’impronta infangata di uno stivale.Il suo odio fermentava con la frutta in cantina.
Il suo odio cresceva e cresceva,
strangolava la casa Vede, Signora,
sono nato in una valle di fantasmi.
Un paese di morti dove quando fa buiole divise dei soldati marciano vuote lungo le strade.
E ogni notte la sua bionda bambina mi chiedeva di morire,
ogni notte lasciava un cadavere di cenere sul letto.Un uomo ha in bocca la fame mai sazia dei lupi.
Ha sempre bisogno di mordere,
di succhiare il sapore selvatico.E il mio sperma impazziva nei lombi,
la nutrivo ogni notte con le gocce dei miei sogni. Non l’ho cercata, lo giuro.
Mi ha trovato seguendo un’orbita errata di stelle.
Nuotando e nuotando contro corrente.Allargava i suoi occhi nel buio,
fiutava il mio odore col ventre.La chiamai dalla riva.
Era un luccio gigante,
una cornucopia di luce nella marea del mattino.
Guizzò nell’aria: aveva un feto nell’iride dell’occhio,
si dibatteva con furia contro l’uncino del mio sesso. Vede, signora,
ero un baco senza pupille
lei mi chiuse le palpebre con dita sudate,
mi avvolse con un filo di bava
nel suo bozzolo bianco.E a casa la sua bambina bella cadeva fra i narcisi.
Si rompeva in mille pezzi,
pura e dolorosa come un grido.
Un crack fra le mie mani, così.
La vita le usciva da un fianco,
il sangue tornava alla terra.
Io non centro, lo giuro.
Fece tutto da sola.”
UNA SANTA AMERICANA
Ci sono amori senza paradiso.
Solitudini che seccano sul grembo
come macchie di parto.
Ted ha messo il suo cuore sotto spirito.
Lei adesso è immortale.
Un altare, una statua,
una icona.
È qui per restare:
sole che nasce all’incontrario,
bocca magica che vomita gigli.È una madonna azzurra
che brilla sopra il nostro letto.
Ci scruta in silenzio. La bocca dolorosa,
immobile come la luna.
È un geyser che schizza su un continente buio.
Nel suo stomaco fermentano semi,
frumento, bulbi di fiori pronti ad esplodere.
Una divinità preistorica:
corpo di marmo
senza ombelico,
senza padre, né madre.
GAS
La bocca del forno è un animale buono,
lo sbadiglio di un cane sdentato.
La cucina è igienica come un crematorio.
Il gas è una sciarpa di seta nell’aria,
ha l’odore pungente delle ascelle di Ted.Shura dorme attaccata alla mia schiena.
È un piccolo innesto.
Una farfalla nella coperta;
il suo respiro è una garza.Fuori la luna imbianca
la potatura senza sangue degli alberi.
Il prato è cangiante come una pellicola esposta.Due pastiglie, perfette come una comunione
e orbito fuori dal mondo.
Ultimo volo sullo Zeppelin
contro l’irriducibile flusso delle maree.Apro le orchidee dei bronchi
e respiro respiro.
Il cuore mi batte veloce come quello di un feto.
Un airone mi picchia dentro il cervello.La casa è un polmone chiuso.
Il dolore ha il sibilo azzurro del gas.Altre poesieRoviL’aria intera, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata
delle taccole è iniziata
alla taccolità – quella complicata
corte di convenzionie precedenze, di sciovinismo e leggi.
Corte che è quasi una prigione – con sbarre
di gridi e di segnali. Carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via
tra i grovigli dei roviho pensato di nuovo: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così elaborate,
la loro estensione così intenzionale, sono svegli?
Certo un nimbo di dolore e di piaceresiede sulla loro nuda corona,
la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili,
un vano andare a tentoni. E poi perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
Le mie cellule cerebrali forse temono o sentonoil bisturi o l’incidente?
Anch’esse incoronano una pianta
di straordinaria insensibilità. E le taccole
si danno segretamente da fare per essere taccole
come se fossero semi nella terra.L’intera claque è un’ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.
EclissiPer mezz’ora, attraverso una lente d’ingrandimento,
ho guardato i ragni fare l’amore indisturbati,
ignari del voyeur, orribilmente felici.Prima, nell’angolo inferiore della finestra, a sinistra,
ho visto un comune ragno muoversi. Là
in quel letamaio di carcasse, un macello
di insetti seccati nei loro colori,
una tana trofeo di uniformi, rossi, verdi,
scaglie d’ali rigate di giallo e staccate, gli avanzi
dell’anno scorso, riarsi dall’inverno, inodori – teste,
busti, corsetti, gusci di zampe, una briciola di frammenti
in un museo di polvere e di oblio, là
in quella crepa, nascosta da vecchi involucri di cadaveri,
un ragno è venuto a vivere. Ha filato
una bava disordinata e quasi invisibile
di trefoli, alcuni angoli a caso
camuffati da grigia lordura di pioggia
sui vetri. L’ho visto muoversi. Poi uno più piccolo,
ugualmente rossiccio, del tutto simile,
solo più piccolo. Il maschio, che all’improvviso appariva.A testa in giù, lei stava facendo una danza
lenta e malvagia. Tutte le zampe aggrappate
tranne le due principali, che battevano sulla tela,
facendola vibrare, pensavo, come una mosca, per attirare
il maschio immobile, a testa in giù, vicino al telaio,
a due centimetri da lei. Lui si allontanò,
preparandosi a fuggire, pensai. Forse
impaurito dalle sue intenzioni e dai suoi appetiti:
dubbioso. Ma il potere di lei, concentratosi,
incapace di sbagliare dopo tutti i milioni d’anni
che ci sono voluti a perfezionare quest’arte, lo fece girare
a una distanza di cinque centimetri, e lo appese
all’ingiù, la testa sotto di lei, il ventre contro.
Bloccato completamente, se non per quel debole,
appena percettibile pulsare delle sue pelose estremità.
Lei si fece dappresso, capovolta, piano piano,
e intrappolò le zampe anteriori di lui tra le sue.Ecco, immaginai, il fattaccio.
Mi avvicinai per guardare. Qualcosa
di assai difficile da capire e da osservare
correttamente stava accadendo.
Le mani di lei sembravano gonfie, minuscole chele.
Quelle due pinze che lei si ripiega sotto il naso
per portare le cose alle sue tenaglie si stavano muovendo,
luccicanti. Lui si scuoteva ogni tanto.
Il guscio di lei sobbalzava – brevi spasmi
di crudeli estasi. Lo stava facendo a pezzi?
Qualcosa di molto più delicato, un accordo
molto più delicato stava avvenendo.
Sotto l’addome lui aveva un beccuccio -
presumibilmente il suo cazzetto nodoso,
rossiccio come il resto di lui, una tettarella,
un infinitesimale capezzolo. Probabilmente
al microscopio risulta dotato e disegnato
come il microattrezzo di una qualche navicella spaziale.
A me apparve semplice e rozzo. Tutt’altro che semplici,
invece, erano i palpi, le pinze-cesti di lei -
erano come i bracci meccanici
che trattano materia radioattiva
dall’altra parte del vetro di protezione.
Ma oscenamente abili. Ne allungò una,
non riesco a immaginare come ci riuscì,
ed estrasse dita scimmiesche dalle sue pinze di granchio
e afferrò il cazzo-capezzolo. Non appena lo ebbe
una bolla di lucido collante
si formò sulla pinza, grande come la sua testa,
poi si ridusse e man mano che si riduceva
lei mollava la presa,
come se il cazzo si fosse inceppato, e raddoppiò la quantità
di liquido brillante alle ganasce
e con questo si strofinò il muso e il sottopelle,
sei, sette secche strofinate, mentre il suo addome sobbalzava,
la punta della sua coda si dimenava e lui pendeva inerte.
Poi si attaccò a lui una seconda volta, al gomito,
e afferrò il suo germoglio, e la viscosa bolla
si gonfiò al di sopra delle sue chele, un rosso sperone vi guizzò
dentro, e lui sussultò nel suo capestro.
Allora la bolla si ridusse e lei la staccò
e se ne riempì ancora la faccia,
qualunque cosa fosse. Del tutto acquietati,
a parte quei sobbalzi furtivi,
essi pendevano a testa in giù, faccia a faccia,
tenendosi le zampe anteriori. Ancora non era chiaro
che cosa stesse accadendo. Continuò.
Mezz’ora. Finalmente lei si ritrasse.
Lui pendeva come un ragno morto, proprio comel’avevo visto
pendere per tutto quel tempo sotto di lei.Pensai che fosse finito. Così adesso, pensai,
vedo il delitto. Ora potrei immaginare
che se lui si muovesse lei lo crederebbe una mosca
e si sentirebbe vorace. E finora
lei ha dimostrato scarso interesse per lui
concentrata com’era a tenerselo attaccato,
come se lui capovolto non fosse altro che il piatto
della prelibatezza. Ecco che si è spostata.
Per un po’ si è mossa intorno senza meta,
finché compresi che si stava concentrando
su una V di bianco polveroso, un delta
di filo che sembrava proprio lanugine. Poi vidi
che infilò il suo ventre ben dentro la V.
Vidi che con l’abilità dei suoi piedi, fini come baffi di gatto,
adattava bollicine di colla alle fibre e altre ne attaccava
per rendere più spessa e più profonda la V, e per
[chiuderne la punta.
Poi ci danzò sopra, a pancia in giù -
all’improvvisò si sollevò e si appese
sopra la V. Seduta nella coppa della V
stava una piccola bolla di nuovo biancore.
Un primo uovo? Di già? Allora con grande cura
lei maneggiò la bolla e spinse altre fibre lanose
nella V, su entrambi i lati,
riducendola via via. Capii
che stavo osservando la potente natura
in un momento di creazione, ma non sapevo di che cosa.
Presto l’informe puntolino di bianco
era un granello residuo, che lei abbandonò. Ritornò
verso il maschio, che pendeva ancora nella sua posizione.
Si fermò e si nettò accuratamente le mani,
serrandole nelle pinze. E all’improvviso
con rapida presa, miracolosamente precisa
si tolse qualcosa di bocca, che rovesciò
su un trefolo esterno della tela -
una particella di bianco – è lo scarto, pensai,
del loro accoppiamento. Così smisi di guardare.
Dieci minuti dopo ricominciavano.
Ora sono svaniti. Ho esaminato
tutta la discarica della carcasse
e le fessure della finestra al di sotto.
Sono nascosti. Lei lo sta divorando?
O c’è ancora qualche giorno di felicità
prima che lui entri nella sua collezione? Sono nascosti
probabilmente insieme nel buio muffito,
stringendosi gli avambracci, ascoltando la pioggia, godendo
mentre l’orlo del sole, dietro le nuvole,
si profila senza la nostra ombra.
Preda
Fustigato con le zampe fino all’azzoppimento
colpito al capo con proiettili di cervello
accecato d’occhi
inchiodato dalle sue stesse costole
strangolato sin quasi all’ultimo suo rantolo
dalla sua stessa trachea
tramortito dalle bastonature del suo stesso cuore
vedendo la sua vita trapassarlo, un balenar di sogno,
mentre affogava nel suo sangue
tirato sotto dal peso dei suoi visceri
lanciando un urlo sventrante ch’era lo svellersi delle sue radici
dall’atomo del fondo roccioso
spalancando la bocca e lasciandosi irrompere dall’urlo come in distanza
e fracassato tra i rifiuti del suolo
riuscì a udire, debole e lontano -”E’ un maschio”
poi tutto divenne nero
LIGNAGGIO.
In principio era Grido
Che generò Sangue
Che generò Occhio
Che generò Paura
Che generò Ala
Che generò Osso
Che generò Granito
Che generò Viola
Che generò Chitarra
Che generò Sudore
Che generò Adamo
Che generò Dio
Che generò Niente
Che generò Mai
Mai Mai Mai
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Informazioni personali
- rimmel
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2 commenti:
Buongiorno.
Potreste indicare esattamente le pagine delle poesie riportate?
Nella edizione Meridiani Momndadori non trovo i testi di Hughes postati sopra e vorrei controllare la traduzione con l'originale.
Grazie per l'attenzione
atward.p@gmail.com
Buongiorno, vi prego di notare che molte delle poesie riportate sopra non appartengono a Ted Hughes, ma alla sottoscritta. Sono state pubblicate in due miei libri: la prima volta nel volume: "Mitologie Private", Edizioni Clandestine 2007. Più recentemente, nel volume "La Regina di Ica" Edizioni Ponte del Sale 2012, nella sezione denominata PIKE. Vi prego di rimuovere immediatamente i testi "L amante, Marionette, Una Santa Americana e la prima parte di Gas, fino al verso che termine con Polmone Chiuso", che mi appartengono integralmente. Potete, chiaramente, riportarle con il mio nome come autrice. Grazie.
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